Antonello Caporale, il Fatto Quotidiano 4/10/2012, 4 ottobre 2012
“UN PAESE ORRIBILE MA GLI HO DATO UN FUTURO”
inviato a Laviano (Salerno)
Sono il sindaco di un paese storto come la mia legna”. Rocco Falivena è un pensatore di montagna: fa il boscaiolo ma ha conosciuto il mondo. Sa cos’è la fame, sa cos’è Lotta continua, è stato carbonaio da piccino, da giovanotto militante a Sociologia di Trento, poi, forse, aspirante rivoluzionario a Londra. Trentadue anni fa l’inferno inghiottì il suo paesino e la sua famiglia. “Da allora mi sono felicemente recluso dentro questa spianata di miseria. Dove i soldi della ricostruzione anziché portare ricchezza hanno parecchio affamato. Cocaina di massa. Io che da piccino non ho mai conosciuto una casa adesso vivo accerchiato dal cemento armato, il segno della modernità ignorante. Il potere senza cultura è il guaio più grande che potessimo passare”.
VENTICINQUE baracche cambiate in 13 anni di vita. “Con i miei genitori si raccoglieva carboni, e si edificava la capanna dove erano i carboni. Si cambiava montagna anche due, tre volte l’anno. Il mio paese si chiama Laviano, in provincia di Salerno, sono sindaco da un quindicennio, con alterne fortune. Ho sessant’anni, resisto malgrado ogni evidenza, amo la mia terra e i miei boschi (quando posso ci dormo anche). Spacco legna, ma anni fa era meglio, il mio fisico reggeva. Il potere non conosce il pensiero, la felicità. Perciò è stupido, fragile, ingordo. Che baccalà quel Fiorito! A volte penso: basta un ago da calzolaio a bucare le ruote di un’auto. Duemila auto con le gomme a terra e una città come Milano sarebbe in ginocchio. Buffo, no?”.
Conoscere la storia di Laviano è come assaggiare un po’ l’inferno. Laviano fu l’epicentro dell’epicentro del sisma conosciuto come quello dell’Irpinia: 23 novembre 1980. Il buco che lo inghiottì risucchiò trecento del migliaio di abitanti che lì dimorava. I morti di Laviano, solo di Laviano, pareggiano quelli dell’intero Abruzzo. Ricordo il giorno in cui mi avviai verso quel cimitero, e le bare in fila ai lati del tornante, all’ingresso del paese che non c’era più. Così tante bare che la carreggiata si trasformò in un vicolo buio, coperto alla luce dalle mura di legno, blocchi simili a parallelepipedi fatti giungere da ogni parte d’Italia. Gli ultimi a morire furono i bimbi, perché il terremoto li colse mentre erano in piazza a giocare, di domenica sera. Erano le sette e mezza. E così a raccontare la vita di questo paese di montagna furono i giocattoli: macchini-ne, bambole, trenini. Giocavano in piazza, il boato e poi la voragine che li inghiottì. E quella piazza divenne una casa piena di lamenti e paura, con le mamme che gridavano: “I bambini! I bambini!”. I bambini non c’erano più. Li ripresero dopo giorni. Uno aveva il pallone ancora tra le braccia... La scena era così orribile che solo a vederla metteva paura. Era l’inferno assoluto. Chi erano i vivi, e chi i morti? Tutto quel dolore e quei morti hanno generato uno spreco altrettanto indicibile, miliardi di lire in cemento armato. Il nulla per il nulla.
ROCCO FALIVENA atterra da Londra. Ha saputo. “Non mi avevano detto che i miei genitori erano morti, la mia famiglia sterminata, come tutte le famiglie del resto. Quando arrivai intuii che da qui non potevo andar via. Un obbligo morale, un dovere assoluto: venire all’inferno per salvarci dall’inferno”. Dopo un quindicennio di battaglie dall’opposizione, prima col Pci poi con Rifondazione comunista, il governo del minuscolo paese, ma simbolo nazionale della tragedia. “Avevano già speso parecchi soldi e avevano sventrato case, eretto mura, spianato i cocuzzoli. Chiamai l’architetto Dal Piaz, allora presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica. Gli chiesi di trascorrere un giorno con me e di darmi un consiglio per raddrizzare questo paese storto. Venne, guardò, poi deliberò: sindaco, qui serve solo un caterpillar che butti giù questo nuovo orrore. Lo ringraziai, e mi sono messo a gestire il paese storto, me lo sono tenuto storto così com’è. E ho cercato di dare l’anima per fare qualcosa di buono. A volte ci sono persino riuscito”. Tra le cose buone una grande e in qualche modo bizzarra idea: trasformare i ricoveri provvisori dei terremotati, le casette di legno servite ai residenti negli anni della ricostruzione, in chalet popolari, luoghi da abitare per chi non avesse nel portafogli la possibilità di una vacanza. “Il villaggio antistress l’ho chiamato. Ed è stata un’idea felice. Ridare vita a un luogo che altrimenti sarebbe stato inutile, custodire un bene della collettività e dare un filo d’aria a chi per tutta una vita è costretto a stare nei palazzoni metropolitani. Il comune affitta a prezzo politico queste casette (80-100 euro al mese). Si può viverci tutto l’anno, trascorrere l’estate o soltanto un weekend. La proposta – che ha generato anche qualche quattrino per le casse del comune – è stata apprezzata. È gente di mare che sale fino qua. È stata dura far digerite ai miei compaesani, abituati alla chiusura delle montagne, questa nuova presenza, magari rumorosa, aperta alla vita. Sono differenti da noi, ma è necessaria la differenza, fa capire, intuire, dare un segno più profondo alla vita. Guardando il potere da qui ti chiedi come sia stato possibile giungere al punto in cui siamo. Poi vedi i volti, immagini lo stomaco, il curriculum di studi, i loro piaceri. Siamo diversi e siamo anche meno disperati di loro”.
(2. continua)