Enrico Deaglio, il Venerdì 5/10/2012, 5 ottobre 2012
DUEL – GLI AVVERSARI DEL PD RACCONTATI DA VICINO
[Matteo Renzi-Pierluigi Bersani]
[Matteo Renzi]
LA PREDESTINAZIONE DI UN GIOVANE DC–
FIRENZE. Ecco una scena che potremmo vedere tra breve, nella forma di una breaking news: «Il sindaco di Firenze Matteo Renzi, 37 anni, trionfatore delle primarie del Partito Democratico all’insegna della rottamazione dei vecchi dirigenti, si è recato, con la moglie Arnese, al cimitero di Rifredi , per pregare sulla tomba di Giorgio La Pira, il sindaco santo democristiano del dopoguerra fiorentino, suo mentore politico. La vittoria di Renzi - impensabile fino a pochi mesi fa - segna la fine nel Pd dell’egemonia culturale e organizzativa dell’ex Pci, vero obiettivo della fortunata campagna di Renzi. Ancora una volta, come nel 1994, quando gli italiani scelsero Silvio Berlusconi al posto del favorito Achille Occhetto, la realtà del voto ha superato la fantasia degli analisti politici».
Potrebbe finire davvero cosi? A giudicare dal momentum che il candidato Matteo Renzi sta vivendo comizi affollatissimi, boom mediatico, appoggi trasversali che vanno da idoli dei giovani come Jovanotti ad Alessandro Buricco, a testimonial dell’establishment come Marcello Dell’Utri («È un titano»), Nicole Minetti («È giovane»), Lele Mora («È sexissimo») - il finale di partita più inaspettato potrebbe proprio essere questo. E in quel caso, la preghiera sulla tomba di La Pira sarebbe la ripetizione di quanto già successe quando Renzi diventò sindaco di Firenze. Come in tutte le storie strane (e questa lo è, senza dubbio), per raccontare Renzi bisogna partire da lontano. Per esempio dal suo anno di nascita, il 1975. Per segno del destino, Matteo I il Rottamatore nasce a Rignano sull’Arno (Firenze) mentre si svolge il più drammatico congresso della Dc. In un palazzone fascista dell’Eur, le correnti dilaniate e sommerse dalla corruzione (ebbene sì, ci furono dei precedenti ai comportamenti dell’odierna Regione Lazio) non riescono a trovare un punto di accordo. Quando si prospetta un conclave-rissa senza fine (nella notte gli autisti delle auto blu - Fellini non era mai arrivato a tanto - cominciano a suonare il clacson ritmicamente: sbrigateve, volemo ’andà a dormì) i capi dc, improvvisamente consci della ostilità proveniente dal mondo esterno, ritirano le unghie e affidano il partito ad una degnissima persona, Benigno Zaccagnini, medico di Ferrara, con un passato di partigiano, di buoni principi progressisti e soprattutto di specchiata onestà. L’onesto Zac salvò la Dc e la resse fino alla tragedia di Aldo Moro. Dunque, il padre del nostro Matteo, Tiziano Renzi, era un dc zaccagniniano (un importante dirigente fiorentino) e il piccolo succhiò quel latte in casa: l’orgoglio dc, la dura competizione con il Pci, la mistica degli scout, le figure di Dossetti e di Fanfani, il ricordo di quel santo sindaco, Giorgio La Pira, appunto, che era insieme mistico, amico di Ho Chi Minh, difensore degli operai licenziati e oppositore del divorzio. Matteo deve avere imparato molto in famiglia, la Dc era per lui una presenza quotidiana, a partire da quel Ciriaco De Mita di cui, da piccolo, faceva imitazioni spassosissime. Studente al liceo Dante, Matteo partecipava alla famosa preghiera del mattino indetta da un carismatico sacerdote di CI e scriveva un giornalino su cui si firmava Zac, appunto. Era un «tipo aggregante» anche alla facoltà di giurisprudenza dove si laureerà, ovviamente, sull’opera di La Pira (il titolo della tesi è ancora attuale: «Amministrazione e cultura politica»). Il ragazzo, peperino e grassottello, è tentato anche dallo sport; vorrebbe fare il calciatore, ma ripiega sulla carriera arbitrale. La prende molto sul serio, ricorda il suo amico Luciano Cencetti: da guardalinee sventola la bandiera «come se stesse scacciando zanzare», ma è presente, propositivo, organizzatore. Arbitro fino alla seconda categoria, poi smette. È intraprendente: appena maggiorenne, nel 1994, partecipa alla «Ruota della fortuna» di Mike Bongiorno e vince 48 milioni. L’occasione per la politica attiva è la candidatura di Romano Prodi e i comitati in suo sostegno, ovvero quella che fu la breve esperienza dell’Ulivo.
Decide poi di diventare un politico di professione nel bel mezzo dell’esperienza esistenziale e mistica (così viene in genere descritta) del cammino-pellegrinaggio verso il famoso santuario di Santiago di Compostela. Qui, come racconta il suo amico Nicola Danti (oggi consigliere regionale del Pd), in una sorta di illuminazione e tormento, prende la sofferta decisione di guidare, a 24 anni, il Partito Popolare della provincia di Firenze, nel 1999. Di nuovo, dimostra grande capacità di fare proseliti. Ricorda Guelfo Guelfi, che ne ha curato per molti anni l’immagine pubblica, che «la fede occupa molto posto nella sua vita» (Renzi non manca una messa la domenica, si segna prima di pranzare, e ha guardato con simpatia alla lista elettorale di Ferrara contro l’aborto) e che, di lui, colpisce la capacità di lavoro e di apprendimento. Da ragazzo legge molto (più Dossetti che Aldo Moro, più il teologo antinazista Dietrich Bonhoeffer che Antonio Gramsci) e scrive una newsletter che, inviata a 15.000 amici, diventerà la sua prima base elettorale. Ma è l’irriverenza il tratto principale della sua azione politica. Mentre il Partito popolare diventa la Margherita (Renzi non viene affascinato dal carisma di Francesco Rutelli: una colpa o un merito?) e nasce, con la famosa fusione fredda tra ex comunisti ed ex dc, il Partito Democratico, il ragazzo si lancia all’attacco del sindaco della città, Leonardo Domenici, un prodotto della burocrazia Pds, che aveva due difetti: non amava Firenze e non ne era riamato. La prova vittoriosa di Renzi contro Domenici ha anche un altro significato. È la dimostrazione che il vecchio potere comunista si può battere in una delle sue maggiori roccaforti e che è proprio la base comunista ad essere la più sensibile al richiamo. Renzi non ha paura di attaccare frontalmente le roccaforti del potere costituito: sindacati, specie quelli del pubblico impiego; amministratori, burocrati. Ha capito che sono vulnerabili, non teme l’egemonia comunista, soprattutto perché questa non ha più nulla di interessante da dire.
Quando Renzi vincerà a mano bassa le primarie per sindaco di Firenze, si scoprirà che sono state proprio le sezioni comuniste più tradizionaliste e nostalgiche a votare il ragazzo democristiano. Icastico il commento di un vecchio operaio di San Frediano, alla notizia della sua vittoria: «Oh Matteo, t’avevamo detto di correre, mi’a di vincere». Il resto è storia d’oggi, fin troppo travolgente. Renzi è dimagrito, ha un nuovo taglio di capelli, indossa delle camicie bianche anni 60 alla Bob Kennedy, si è leggermente laicizzato, ha uno stuolo di consulenti, un mentore misterioso che abita a Greve in Chianti (sarà dell’Opus Dei?) infila nei comizi battute facili («La spedizione americana su Marte costa meno della Salerno-Reggio Calabria»). Se Matteo Renzi vincerà sarà, in qualche maniera, il più imprevisto repéchage della storia politica italiana. Il clamoroso caso di come un dc, fuori tempo massimo, si sia infilato nel museo del Pci e, col favore delle guardie, si sia portato via il bottino. «Non moriremo democristiani» era uno slogan de Il Manifesto, un gruppo politico, coevo del Renzi, che si proponeva di rottamare i vecchi dirigenti del Pci in nome del vero comunismo. Sbagliavano. O era la famosa eterogenesi dei fini?
[Pierluigi Bersani]
LAUREA IN PATRISTICA EQUEL PCI D’ANTAN–
BETTOLA (Piacenza). Un colpo segreto, per rimettere a posto il rottamatore Renzi, Bersani ce l’avrebbe. Non lo userà, perché non è spregiudicato; ma, se avesse uno spin doctor, il gioco sarebbe programmato: postare su You Tube, a ridosso delle primarie, un suo duetto con Katia Ricciarelli. Repertorio: Mozart e Verdi. Bersani è infatti un ottimo baritono e con la grande Katia si è già esibito una volta, in una casa privata, purtroppo senza registrazioni. Ma chi era presente ha tramandato la notizia di una performance inaspettata.
Diventerebbe una rock star, ma non lo farà. E così contro di lui giocherà invece l’età (è del 1951), la grisaglia da burocrate emiliano, quell’«usato sicuro» che gli ha cucito addosso l’alter ego Maurizio Crozza.
Candidato ad essere il primo presidente del Consiglio della Terza Repubblica, Pier Luigi Bersani (forse) diventerebbe l’unico ex comunista al potere nell’Unione Europea nel XXI secolo, nel bel mezzo di un’ondata formidabile di antipolitica. Un bel paradosso, che addirittura aumenta se si scava nella biografia di Bersani, ricca di aspetti poco conosciuti e sorprendenti.
Prima di tutto, le origini e la formazione. Il nostro nasce a Bettola, 5.000 abitanti in provincia di Piacenza. Dopo la guerra, lì l’80 per cento erano democristiani duri, decisamente anticomunisti;
e tali, 60 anni dopo, sono rimasti. La famiglia Bersani non faceva eccezione: gente di parrocchia, con il mitico don Vincenzo, contro cui il piccolo Pier Luigi però scioperò, perché non ridistribuiva tra i chierichetti gli oboli versati in chiesa. Il padre gestiva la pompa di benzina della Esso e il ragazzino, ovviamente, dava una mano a fare il pieno, imparando che cosa significa il gelo intorno alle mani e la neve nelle scarpe.
Il «momento fondante» arriva nel 1966. Firenze sta morendo sotto l’alluvione, ragazzi da tutta Italia accorrono per mettere in salvo biblioteche e cultura. Il quindicenne Pier Luigi è in mezzo a quella prima manifestazione della meglio gioventù italiana che anticipa il movimento del ’68. A 18 anni si mette con Daniela, che sposerà, ovviamente in chiesa, dopo aver fatto il servizio militare come soldato semplice nelle pietraie di Macomer (oggi Daniela Bersani gestisce una farmacia comunale – apprezza le liberalizzazioni del marito – e le due figlie, Elisa e Margherita, dice lui, «sono molto più a sinistra di me»).
Ma Pier Luigi non cresce proprio succhiando il latte del Pci. Piuttosto è un grande ammiratore di papa Roncalli, studia filosofia, e si laurea a Bologna (summa cum laude) con dotta tesi su San Gregorio Magno (siamo alla fine del VI secolo, se vi eravate distratti), la sua azione riformistica, avventurandosi anche nel dibattito tra Sant’Agostino e Pelagio, ovvero un tremendo antifemminista e un giustizialista ante litteram.
Ma, allora quand’è che diventa comunista, il Pier Luigi? Bisogna aspettare la metà degli anni 70, perché prima il Nostro sceglie il trotzkismo, poi fonda la cellula bolognese di Avanguardia Operaia, gruppuscolo non particolarmente creativo, ma noto per l’utilizzo creativo delle chiavi inglesi nel settore dell’antifascismo militante.
Il Pci comparirà nella vita di Bersani solo a metà degli anni 70, come «rifugio di serietà» dopo un’ubriacatura di parole. Anni di lavoro oscuro: segue per il partito la formazione professionale della gioventù, le comunità montane del Piacentino, l’industria casearia, i ceti medi produttivi di togliattiana memoria e tutte le cooperative possibili e immaginabili; diventa consigliere regionale e nel 1993 presidente della Regione Emilia-Romagna, poi deputato europeo e ministro nei governi Prodi. Solo da tre anni è il segretario del Pd, partito sgangheratissimo, ma beneficiato dal crollo verticale e improvviso del berlusconismo e dal montismo che ha fatto il lavoro sporco su pensioni e mercato del lavoro. Ah, se non fosse spuntato come un fungo dopo la pioggia questo Matteo Renzi!
Come leader post-comunista è decisamente anomalo. Non è un Machiavelli come D’Alema, non è nevrastenico, non è narciso, non ha i vizi del potere, non subisce il fascino di Roma, non ama il lusso. Non è cattivo, e questo nel Pd non è una cosa da poco. Come è noto, è un fan di Vasco Rossi. Lavora molto. Luciano Sira, per esempio, il presidente della Granarolo, ha parole di enorme elogio per come si adoperò «indefessamente» durante il dramma della bancarotta Parmalat («Sapeva cos’era il bene comune, sapeva cosa voleva dire perdere la produzione di latte, sapeva ascoltare»); Sergio Lo Giudice, presidente onorario dell’Arci gay, lo ricorda da sempre come libertario operoso, per aver fatto dell’Emilia un’avanguardia di leggi a tutela della minoranze. Parimenti assolutamente aperta e ricambiata è la sua simpatia per la Compagnia delle Opere, il braccio economico di Comunione e Liberazione: di qui una serie imponente di collaborazioni tra questa e la Lega delle Cooperative, ovvero il capitalismo, di origine emiliana, più potente nell’Italia di oggi. Ancora: quando si trattò di appoggiare Emma Bonino alla presidenza della Regione Lazio, fu – a differenza di altri nel partito – veramente leale.
Chi scrive se lo ricorda, in un dibattito emiliano di una decina di anni fa, buttare giù dalla torre Fini e salvare Bossi; ammettere sinceramente che la legge sulla patente a punti di Berlusconi era stata un gran colpo; ricordare quelle antiche vacanze ad Orgosolo. Un paese in cui tutti i maschi portano gli stessi pantaloni di fustagno, ma che anche i turisti possono ordinare e che si possono avere in due versioni: con la tasca posteriore con la patta o senza. E quando Bersani chiese al suo sarto, lui come li portava, quello rispose: «Con la patta». Perché? chiese Bersani. «Perché mio padre li portava così».
Dicono che non sia un leader, ma solo uno dei tanti notabili di cui è ricca la storia del Pci. Che non sa valutare e che l’affare Penati (il capo del Pd milanese, suo capogabinetto, stroncato da un enorme scandalo di tangenti) è lì a dimostrarlo. Dicono che non abbia occhio, e infatti i suoi candidati alle primarie hanno perso a Milano, Palermo e Genova. Che le sue battute («Ehi, ragassi, lo strutto dietetico non esiste mica…») ne facciano una simpatica maschera del ‘900, non un leader dell’era di Facebook.
Tutto vero, per carità. Ma considerate anche questo reperto storico, prima che sia il cattolicissimo Renzi a rottamare il comunista Bersani. Nell’agosto 2003, Bersani inaugurò il meeeting di Cl a Rimini con queste parole: «Se vuole rifondarsi, la sinistra deve ripartire dal vostro retroterra ideale… La vera sinistra non nasce dal bolscevismo, ma dalle cooperative bianche dell’800. Il Psi è venuto dopo le cooperative, il Pci dopo ancora, e i gruppi nati col ‘68 sono spariti. Solo l’ideale lanciato da Cl negli anni 70 è rimasto vivo, perché è quello più vicino alla base popolare. È lo stesso ideale che era anche delle cooperative: un fare che è anche un educare. Quando nel 1989 Achille Occhetto volle cambiare il nome del Pci, per un po’ pensò di chiamare il nuovo partito Comunità e Libertà. Perché, tra noi e voi, le radici sono le stesse».
Questa non ve lo aspettavate, vero? Come non vi aspettereste di vederlo, seduttore e dannato come don Giovanni su YouTube. «Vorrei e non vorrei…». Curioso, come il vecchio e il giovane siano più vicini del previsto…