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 2012  ottobre 04 Giovedì calendario

IMAM MADE IN ITALY


Durante la settimana sbarcano il lunario occupandosi d’altro, poi nei ritagli di tempo si improvvisano ministri di culto. Per vedere all’opera i nuovi imam bisogna scendere in qualche parcheggio sotterraneo, o varcare la soglia di un ex ufficio preso in affitto, tutti locali trasformati in moschee di fortuna. Qui, dove l’unico minareto che si vede è quello raffigurato sui dipinti appesi alle pareti, pronunciano il sermone del venerdì. Di loro si sa poco o nulla. Eppure, rivestono un ruolo strategico, soprattutto in un momento delicato come questo.
A livello internazionale si respira un clima da trincea. L’Organizzazione per la cooperazione islamica ha chiesto ai governi occidentali di adottare leggi anti odio, limitando là dove necessario il diritto alla libertà di espressione. Oltralpe il ministro dell’Interno Manuel Valls, durante l’inaugurazione della Grande moschea di Strasburgo, ha dichiarato che il governo Hollande è pronto a espellere i musulmani ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico. Al largo della Libia, le due navi da guerra classe destroyer mandate da Barack Obama a presidiare le coste del paese arabo rimangono sul chi va là. A quasi un mese dall’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia Christopher Stevens, la pellicola su Maometto non smette di produrre conseguenze. Tensioni ancora dense.
E in Italia? Nelle sale di preghiera islamiche sparse lungo lo Stivale sono spesso e volentieri gli imam fai-da-te a decidere quale forma dare alla protesta islamica.
«Alcuni miei colleghi alzano la voce. Io invece dico ai fedeli che vengono da me di tenere conto del contesto in cui determinati episodi avvengono, per evitare che si lascino trascinare dalle emozioni. Le prime volte, lo ammetto, non è stato facile. Penso per esempio a quando, nel 2005, sono state pubblicate in Danimarca le caricature di Maometto. Ma adesso ho un discorso collaudato nel cassetto, tagliato su misura per fronteggiare situazioni simili, che tiro fuori quando se ne presenta l’esigenza» racconta a Panorama Youssef Sbai. Imam part-time, commerciante di marmi di professione, ha 52 anni di cui una trentina spesi a fare la guida spirituale come secondo lavoro. Prima a Genova, adesso a Massa Carrara.
Il cronista lo ha incontrato a Padova, nel dipartimento di sociologia dell’università, dove frequenta il master sull’Islam in Europa assieme ad altri ministri di culto musulmani. «È un’esperienza interessante» prosegue l’imam. «Sto imparando molto. Per me che ho studiato architettura, e che per fare l’imam mi sono dovuto rimboccare le maniche, è un’occasione per colmare le lacune che mi porto dietro da tempo». Fuori suonano le campane, dentro l’aula si parla d’Islam e politiche del welfare in Italia. La lezione sta volgendo al termine. Gli allievi, una ventina, impegnati a prendere appunti nella sala, hanno organizzato un pranzo a base di cuscus. Poi altre tre ore di corso.
Il master va avanti da gennaio e si tiene ogni sabato. Diverse le materie passate in rassegna. Si studia religione, antropologia e sociologia dell’Islam. Lingua araba ed elementi di natura giuridica utili per chi deve dirigere in Italia un luogo di culto musulmano. Costo complessivo? Poco più di 2.400 euro per 1.500 ore di lezione.
«L’iniziativa» spiega a Panorama il condirettore del master Khalid Rhazzali «nasce dalla volontà di valorizzare la figura dell’imam sul piano professionale. Per il Paese si tratta di un’opportunità importante». Ne è convinta anche la teologa Nibras Breigeche, membro del direttivo dell’Associazione islamica italiana degli imam e delle guide religiose, creata alla fine del 2011 allo scopo di contribuire al riconoscimento in via ufficiale dei diritti dei ministri di culto islamico. Tra gli alunni presenti in sala si trova anche lei: «In Italia da un lato dominano la scena gli imam autodidatti, che non dispongono di una preparazione teologica specifica e svolgono la loro funzione in campo religioso pur non avendo tutti gli strumenti necessari per farlo, dall’altro c’è qualche imam che arriva direttamente dall’estero, in prevalenza dall’Egitto e dallo Yemen, con alle spalle un percorso didattico ad hoc, ma spesso fatica a relazionarsi con la comunità islamica locale. Il corso aiuta a ridurre il gap tra gli uni e gli altri, fornendo ai primi alcune delle conoscenze di cui hanno bisogno e ai secondi i principi di mediazione interculturale grazie ai quali destreggiarsi in una realtà completamente nuova rispetto a quella del paese d’origine».
Ma il master dell’Università di Padova non è l’unico nel suo genere. Negli ultimi mesi i percorsi di formazione per imam sono diventati una moda. A Milano, prima dell’estate, il Centro di coordinamento dei centri islamici ha istituito, in collaborazione con l’Arci, un corso in gestione del nonprofit rivolto ai dirigenti delle associazioni musulmane. Presenti alle lezioni svariati imam dell’hinterland. Sempre a Padova l’Isesco (l’organizzazione internazionale islamica per l’educazione con sede a Rabat) ha preparato a maggio un tirocinio di quattro giorni a misura di imam: una trentina i partecipanti alla prima edizione del master in miniatura. In precedenza qualcosa è stato fatto anche dal Fidr, il Forum internazionale democrazia e religioni dell’Università del Piemonte Amedeo Avogadro, con il sostegno del ministero dell’Interno.
Ma i master da soli non bastano. «I corsi rivestono un ruolo fondamentale» annuisce Aisha Valeria Lazzerini del comitato giuridico della Coreis. «Ai nostri ministri di culto serve innanzitutto un sistema di riconoscimento, per esempio attraverso il varo di uno statuto. Agli occhi di qualcuno questa forma d’inquadramento può sembrare discriminatoria, ma si tratta di uno strumento qualificante in grado di fare compiere all’Islam italiano un salto di qualità importante». La Coreis, acronimo che sta per Comunità religiosa islamica, è stata la prima a organizzare dei corsi biennali destinati agli imam. In questo campo ha fatto da pioniere. «Stiamo investendo sulla preparazione degli uomini» prosegue il membro della comunità di via Meda a Milano «in attesa di un chiarimento istituzionale che permetta un’organizzazione sempre più trasparente del culto islamico».
Ultimamene l’integrazione in chiave islamica ha subito una battuta d’arresto. Il Comitato per l’Islam italiano, organismo coordinato in precedenza dal ministero dell’Interno, caduto il governo Berlusconi è stato archiviato. Al suo posto ha visto la luce la Conferenza permanente delle religioni che risponde al ministro per la Cooperazione internazionale, Andrea Riccardi. Risultato: prima che si giunga a un riconoscimento di carattere istituzionale sia degli imam sia dei luoghi di culto islamici bisognerà aspettare ancora.
Intanto in Italia cresce rapidamente il numero di islamici. Sono circa 1 milione e mezzo quelli presenti sul territorio, è la seconda comunità religiosa per numero di fedeli. Di più: è in atto un boom di conversioni, secondo gli ultimi dati diffusi dall’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche in Italia. Sarebbero infatti 4 mila gli italiani che ogni anno scelgono di passare al culto di Maometto. E le moschee fai-da-te sono in grande crescita, in particolare al Nord, dove è più alta la concentrazione di fedeli. Sono 820 quelle in attività, stima la Caritas.
Conti che tornerebbero anche alla Digos. A inizio 2011 erano 769 stando a un censimento effettuato dall’esperto d’Islam Stefano Allievi, docente dell’Università di Padova, e dal suo gruppo di ricerca. In poco più di un anno e mezzo ne sono nate quindi una sessantina. Tuttavia, l’Islam in Italia per trovare spazio è costretto ad arrangiarsi come può. Le sale di preghiera si trovano un po’ ovunque: nei garage, nei negozi, persino nell’appartamento del vicino. Ma siccome si prevede che entro il 2050 i musulmani in Italia toccheranno quota 2,6 milioni, per le soluzioni provvisorie è iniziato il conto alla rovescia.