Jann S. Wenner, Rolling Stone 5/10/2012, 5 ottobre 2012
CALZINI DA SECONDO MANDATO
É la quarta volta negli ultimi quattro anni che ci ritroviamo con Barack Obama per una lunga intervista, ma l’atmosfera e le circostanze, in questo caso, sono diverse. Questa volta i suoi pensieri sono dominati dall’imminente battaglia per il suo secondo mandato. Il presidente è più corrucciato che nelle passate interviste, ma ci è parso lucido nel sintetizzare gli argomenti della sua campagna elettorale e ha lasciato intendere che si ripromette di competere sulla scorta del notevole elenco di risultati ottenuti dalla sua amministrazione: l’estensione dell’assicurazione sanitaria a 32 milioni di americani: il salvataggio del l’economia da un crollo più grave; il rilancio dell’ industria automobilistica; la riforma dei prestiti studenteschi; la fine della discriminazione contro i militari gay; il ritiro delle truppe americane dall’Iraq: l’eliminazione di Osama Bin Laden; e il varo di uno dei più consistenti tagli alle tasse di tutti i tempi a favore della classe media. Nel corso dell’incontro, durato un’ora il presidente ha concesso a noi la sua intervista più lunga e sostanziosa dell’ultimo anno o più. Quando Eric Bates e io lo abbiamo raggiunto nello Studio Ovale, Barack Obama ha esordito invitando il suo staff a far slittare il programma della giornata. «Chiamate l’ufficio del segretario Clinton e ditele che arriveremo con una decina di minuti di ritardo», ha detto. «Facciamo venti», ho suggerito. «Quindici», ha ribattuto con scherzosa severità. Al termine dell’intervista, abbiamo trovato Hillary seduta su una sedia, incastrata tra la scrivania della segretaria personale di Obama e la porta dello Studio Ovale. I due ex rivali (ai tempi delle primarie, ndr) sembrano ora totalmente a loro agio e in sintonia. Clinton ha scherzato sulla popolarità del Tumblr satirico Texts from Hillary, e Obama, fingendo di digitare un messaggio, ha detto con una risata; «Sai, sono al passo con i tempi». Il presidente ha persino giocato sulla sua prudenza da anno elettorale. Essendosi complimentato, durante la nostra precedente intervista, per i miei calzini sgargianti, ha immediatamente indovinato il dono che gli avevamo portato: due paia di calzini, color salmone con riquadri rosa e neri a strisce rosa. «Carini», ha commentato il presidente. Poi, riflettendo sull’abbinamento cromatico, ha aggiunto: «Potrebbero essere calzini da secondo mandato».
Che scenario si prospetta, secondo lei, per l’elezione presidenziale? E che opinione ha di Mitt Romney? Credo assisteremo a un contrasto netto tra i due partiti, come non accadeva da almeno una generazione. Abbiamo un partito repubblicano e un candidato in pectore che puntano su una drastica deregulation in campo ambientale, che credono a un netto ridimensionamento dei diritti di negoziazione collettiva e sono fautori di un approccio alla riduzione del debito che prevede ulteriori tagli delle tasse per gli americani più ricchi, mentre i tagli alla spesa riguarderebbero esclusivamente ambiti come l’istruzione, la ricerca di base, l’assistenza sanitaria per i più deboli. Tutto questo sarà presumibilmente scritto nel loro programma ed emergerà nella loro convention. Non credo che il loro candidato potrà dire all’improvviso: ‘Tutto quello che ho affermato negli ultimi sei mesi, non lo pensavo veramente”. Io presumo che lui lo pensi. Quando ti candidi alla presidenza, la gente fa caso a quello che dici.
In che modo ciò alimenterà il tono e il livello del dibattito pre-elezioni? Credo sinceramente che il dibattito sarà molto utile: non vedo l’ora di confrontarmi con lui. Penso che gli americani ascolteranno molto attentamente per capire quale delle due parti ha una visione capace di far progredire il Paese. Secondo la visione dei repubblicani, se c’è una porzione minuscola della popolazione che lavora bene al vertice e che non è imbrigliata da lacci e lacciuoli di sorta, la nazione crescerà, e i benefici si trasmetteranno anche alla base. Dal 2000 al 2008 è stato questo il principio ispiratore. Non è necessario avvitarsi in un dibattito teorico; abbiamo la dimostrazione di come sono andate le cose: non ha funzionato bene, e io credo che gli americani lo sappiano. L’onere che spetterà a me sarà invece quello di spiegare agli americani in che modo i progressi fatti nel corso degli ultimi tre anni, se sostenuti, potranno dar loro il genere di sicurezza economica cui aspirano. C’è un comprensibile scetticismo, perché la situazione, nel quotidiano, è ancora molto dura. Ci sono tassi di disoccupazione decisamente troppo alti, gente che si è vista portar via la casa dall’esplosione della bolla immobiliare, e altri che sentono ancora il morso degli aumenti dei prezzi della benzina. Il punto è che per molta gente i tempi sono ancora durissimi, e la ripresa non è ancora robusta come vorremmo: è questo che tiene in bilico il risultato delle elezioni, non il fatto che i nostri avversari abbiano teorie particolarmente persuasive su come governare il Paese.
Crede che per quanto riguarda la questione razziale e le relazioni tra le diverse comunità in America ci sia stato qualche cambiamento dall’inizio del suo mandato? Beh, la questione razziale è una delle linee di faglia nella cultura e nella politica americane sin dalle origini. Non ho mai creduto all’idea secondo cui la mia elezione ci avrebbe condotto automaticamente in un’epoca post-razziale. D’altra parte, ho visto nell’arco della mia vita come e quanto l’approccio alla questione razziale sia cambiato e migliorato, e chiunque lo neghi deve aver prestato poca attenzione o sta facendo della retorica, perché lo constatiamo tutti i giorni, e la mia presenza nello Studio Ovale è segno dei cambiamenti che si sono verificati. Quando sono in viaggio per gli States, in molti ci fanno notare che per i giovani neri è un grande incentivo vedere un presidente e una first lady afroamericani: li aiuta ad ampliare il campo delle cose possibili nella vita. Questo ha un’importanza enorme, ma un altro aspetto da non sottovalutare è che per tantissimi giovani bianchi nel Paese è perfettamente normale avere un presidente afroamericano. Stanno crescendo con un presidente così, e la loro mentalità ne sarà certamente influenzata. La mia opinione sulla questione razziale non è mai cambiata; è un problema complesso. Non è solo una questione di testa, bensì anche di cuore. Investe i rapporti interpersonali. Quel che succede a scuola, sul posto di lavoro, nello sport, quel che passa attraverso la musica e la cultura sta modificando le menti come e quanto nessuna legge potrebbe mai fare. Credo che stiamo facendo dei progressi, lenti ma costanti. Quando parlo con le mie figlie Malia e Sasha, vedo che il mondo in cui stanno crescendo con i loro amici è ben diverso da quello in cui sono cresciuto io.
Ai suoi discorsi non sembrano estranee molte delle tematiche di Occupy Wall Street. Questo movimento ha influito anche più a fondo su ciò che lei pensa dell’America? Beh, io penso che Occupy Wall Street sia una manifestazione particolarmente vivace di un’ansia più generale che percorre gli Stati Uniti da almeno un decennio. La gente ha la sensazione che la partita sia truccata in modo che solo pochi possano farcela, mentre tutti gli altri vengono lasciati a cavarsela da sé. Il libero mercato è il più cospicuo generatore di ricchezza mai comparso nella storia. Io sono un convinto sostenitore del libero mercato e credo nella capacità degli americani di avviare un’impresa, di perseguire i loro sogni e di farcela alla grande. Se però si considera la storia di come siamo diventati una superpotenza economica, quel rude individualismo e dinamismo del settore privato è sempre stato affiancato da una politica capace di creare condizioni in cui tutti potessero farcela, i consumatori non venissero ingannati e certi effetti collaterali del capitalismo, come l’inquinamento o gli incidenti sul lavoro, fossero tenuti sotto controllo. La creazione di questa rete di sicurezza sociale non ci ha mai reso più deboli; al contrario, ci ha rafforzato. Ha concesso alla gente la libertà di dire: “Posso trasferirmi in un altro Stato e, se non troverò subito un lavoro, i miei figli non patiranno la fame. Posso avviare un’impresa, ma se non funzionerà io cadrò comunque in piedi”. Prendere questo genere di impegni reciproci a creare reti di sicurezza, a investire in infrastrutture e scuole e ricerca di base — è importante quanto il nostro investimento collettivo per la sicurezza nazionale o per i pompieri e la polizia. Ha facilitato quel genere di assunzione di rischi che ha reso tanto dinamica la nostra economia. Questo è quel che si dice vivere in una democrazia fiorente e moderna. Uno degli argomenti principali da contrastare in questa fase elettorale è quello secondo cui il governo non è soltanto una parte del problema, bensì l’unico problema. I nostri avversari non vogliono solo cancellare il New Deal: in certi casi vorrebbero tornare ancora più indietro.
A proposito di Wall Street, la gente guarda come il Dipartimento della Giustizia ha trattato i grandi responsabili della crisi finanziaria, tipo Goldman Sachs, e dice: “Nessuno è stato processato”. A parte l’occasionale capro espiatorio alla Bernie Madoff, e qualche caso di insider trading, non c’è stata alcuna azione della magistratura contro i responsabili delle decisioni che hanno affossato l’economia globale. Perché, malgrado tutte le truffe e le manipolazioni, nessuno è finito in tribunale? Prima di tutto, la nostra è una nazione fondata sulla legge, e può darsi che in alcuni casi certe pratiche irresponsabili che hanno causato sofferenze a tanti non siano tecnicamente contrarie alla legge. Può darsi che certi comportamenti siano stati sbagliati, ma i magistrati sono tenuti a procedere sulla base di quel che dice la legge. Anche per questo abbiamo varato la riforma di Wall Street: per mettere bene in chiaro che cosa è proibito e che cosa e lecito, per definire norme che dicano: “Questo non si può fare, e chi trasgredisce ne paga le conseguenze”. Ciò non significa che non ci siano tuttora comportamenti scorretti, nella vita quotidiana. Una delle cose che la gente non ha ben capito, per esempio, è il recente accordo sul problema della casa: vi si denuncia la violazione delle leggi civili da parte delle banche, nei casi di contraffazione delle firme per avviare le pratiche di pignoramento (foreclosure), ed è stata accuratamente articolata in modo da costringere le banche a mettere a disposizione miliardi di dollari per aiutare le famiglie colpite, pur lasciando intatta la possibilità di un’azione legale. Non si garantisce alcuna immunità. Abbiamo creato una task torce, formata da funzionari del governo, ma anche dai procuratori generali degli Stati, che sta passando in rassegna tutti i documenti e inviando citazioni in giudizio. Poi, sulla base delle leggi, stabilirà se c’è in giro qualcuno da processare.
James Hansen, il più eminente climatologo della NASA, ha detto, a proposito dell’oleodotto Keystone, che se il progetto va in porto e in Canada si cominciano a bruciare sabbie bituminose, per il pianeta “è finita”. Come risponde a questa affermazione? James Hansen è uno scienziato che ha fatto tantissimo non solo per la comprensione dei cambiamenti climatici, bensì anche per la sensibilizzazione su questo tema. Nutro il massimo rispetto per gli scienziati, ma e importante capire che il Canada andrà avanti con le sue sabbie bituminose a prescindere da quel che faremo noi. E la loro politica nazionale, e la stanno attuando. Per quel che riguarda l’oleodotto Keystone, il mio obiettivo è stato quello di avere procedure trasparenti, e mi sono irriducibilmente opposto ai tentativi del Congresso di aggirare procedure consolidate sia per le amministrazioni democratiche sia per quelle repubblicane. Il progetto Keystone ha suscitato tanta attenzione non perchè questo oleodotto sia davvero la goccia che farà traboccare il vaso del cambiamento climatico, bensì perche gli esperti sono spaventati e preoccupati dalla generale mancanza di iniziativa sul tema. Anch’io sono sinceramente preoccupato per il fatto che a livello internazionale non si sono fatti i progressi necessari. Pur con l’attuale composizione del Congresso, abbiamo provato a prendere tutta una serie di provvedimenti amministrativi che stanno facendo la differenza: il raddoppio degli standard di efficienza delle auto contribuirà a togliere una grande quantità di anidride carbonica dall’atmosfera. Continueremo a promuovere l’efficienza energetica, l’uso di energie rinnovabili e dell’energia verde, ma non c’è dubbio che resta ancora molto da fare. Tra i vari problemi, negli ultimi tre anni, c’è stata l’assoluta priorità, per molti, di trovare un lavoro per pagare il mutuo e assorbire gli alti prezzi dei carburanti. In queste condizioni, è stato facile per la controparte investire milioni di dollari in una campagna propagandistica contro la teoria dei cambiamenti climatici. Sarà un tema centrale nella campagna elettorale, e io esprimerò con estrema nettezza la mia convinzione: dobbiamo compiere altri passi per affrontare seriamente i cambiamenti climatici. E per far questo c’è un modo del tutto compatibile con una forte crescita economica e con la creazione di posti di lavoro: mobilitarsi ad esempio per riadattare gli edifici di tutto il Paese con le tecnologie disponibili, servirebbe a ridurre il consumo di energia di un 15-20%. E un obiettivo raggiungibile, e dovremmo cominciare subito a darci da fare.
Quando è entrato in carica, lei era un giovano presidente senza esperienza militare. Può dirci qualcosa del suo ruolo come supervisore diretto del Pentagono e comandante in capo delle forze armate? Come si è evoluto il suo stile di comando? Sono diventato presidente senza aver fatto il militare, ma con un sentimento di grande reverenza nei confronti delle nostre forze armate, e con la massima ammirazione per i sacrifici compiuti ogni giorno dai nostri soldati, uomini e donne. Nel primo anno il Pentagono aveva questa abitudine di stabilire gli orientamenti fondamentali, non solo sul piano tattico, ma anche su quello strategico. C’era quest’idea per cui noi avevamo tanti martelli, e ogni problema era un chiodo. Un po’ per merito del lavoro davvero ottimo di Bob Gates, che io ho tenuto come segretario alla difesa, e in parte per il mio sincero impegno ad ascoltare lo stato maggiore, con cui ho discusso in modo franco e trasparente, anche quando ci siamo trovati in profondo disaccordo, gli alti gradi militari si sono resi conto di quanto mi stiano a cuore le nostre forze armate, ma hanno capito anche che credo fermamente nel controllo civile su di esse, e che le decisioni militari sono al servizio di strategie e visioni diplomatiche più ampie, concepite qui alla Casa Bianca. Posso perciò affermare con estrema sicurezza che ora i rapporti tra me e il Pentagono sono ottimi. Penso abbiano coscienza dell’attenzione e del rispetto che ho per loro, e credo che mi rispettino e che ascoltino quel che dico. Sanno che sono io il comandante in capo. Il raid contro bin Laden è stato una dimostrazione lampante di questo rapporto molto efficiente e costruttivo che si è instaurato, e il nostro progressivo ritiro dall’Iraq ne è un altro buon esempio. Certo, in Iraq non tutti i problemi sono risolti. Assumendo la carica di presidente ho promesso che avrei messo fine alla guerra in Iraq in maniera responsabile, e il progetto si è realizzato. Non rapidamente come qualcuno forse avrebbe voluto, ma è stato un processo più veloce di quanto auspicavano certi elementi del Pentagono. Abbiamo trovato un approccio che ha riconsegnato agli iracheni un Paese e una democrazia, mettendoli in condizione di determinare il loro futuro. Useremo lo stesso metodo anche in Afghanistan.
Parlando del Medioriente in generale, al di fuori dell’Iraq, tutto sembra in subbuglio: in Siria, in Israele, in Iran... Qual è il suo pensiero su quella regione e sulle sfide strategiche che propone? Ciò a cui abbiamo assistito nell’ultimo anno e mezzo è una serie significativa di cambiamenti quali non se ne vedevano dalla caduta del Muro di Berlino. Credo che nessuno ancora sia in grado di dire come si evolverà la situazione. Da un lato mi inorgoglisce il fatto che gli Stati Uniti si siano schierati al fianco del popolo tunisino e delle sue aspirazioni democratiche. Sono molto fiero di come abbiamo sostenuto il popolo egiziano mettendo bene in chiaro che sarebbe stato inaccettabile, dal nostro punto di vista, assistere alla repressione violenta delle decine di migliaia di manifestanti di piazza Tahrir, e che era l’ora di una transizione democratica. E credo che abbiamo fatto la cosa giusta anche in Libia, in maniera chirurgica, evitando un potenziale massacro. È vero anche, però, che questi Paesi non hanno tradizioni democratiche particolarmente profonde. A causa della repressione, ma non solo, l’unica possibilità organizzativa in queste società è stata quella religiosa, e vigono divisioni settarie che risalgono a centinaia se non a migliaia di anni fa. Nel momento in cui certe trasformazioni prendono corpo, la democrazia può facilmente volgersi in demagogia e in lotte intestine. Ci attende, perciò, una via accidentata, una fase impegnativa. A mio modo di vedere, gli americani devono mantenere un approccio fedele ai principi fondamentali dei diritti universali, della libertà e della democrazia. Dovremo anche mostrarci umili, nel senso che non potremo imporre a quei Paesi la nostra visione senza concedere nulla.
È in carica da oltre tre anni. Com’è il mestiere più difficile del mondo sul piano della quotidianità? Come in ogni altro lavoro, ci sono giornate belle e brutte. Come in ogni altro mestiere, se si è disposti all’autocritica e ce la si mette tutta, con il passare del tempo si migliora. Credo di essere un presidente migliore, ora, rispetto a quando sono entrato in carica. Credo che anche la mia squadra, rispetto agli inizi, sia più efficiente, più abile nel prevedere gli sviluppi delle situazioni. Come mi hanno confermato diverse persone che hanno lavorato sotto altre amministrazioni, è un mestiere difficile, punto e basta. Diventa durissimo se ci si ritrova nel pieno della peggiore crisi finanziaria della propria epoca e con due guerre in corso, per non parlare delle sfide che riguardano terrorismo e cambiamenti climatici.
E tutti sempre lì a farle le pulci e a sottolineare tutti gli errori... Si finisce per farci il callo: sono entrato alla Casa Bianca con la pelle già dura, e adesso la scorza è ancora più spessa. Un po’ perché si capisce di non essere più soltanto una persona, bensì anche un simbolo. Se le cose vanno male, la gente si rivolge a te per una soluzione. E a volte, se i tuoi sforzi non ottengono risultati, si diventa il bersaglio della frustrazione di tutti. Non bisogna prenderlo come un fatto personale: dipende dalla carica che si ricopre, dalla scrivania, dall’elicottero privato e da tutti gli altri aspetti impliciti nell’essere presidente.
Quali spettacoli, film o dischi ha avuto modo di apprezzare? Non ho avuto occasione di vedere tanti film, di recente. Ho visto The Descendants (Paradiso amaro), ed è stato come tornare a casa. Dopo ho incontrato Clooney e, scherzando con lui, gli ho detto che quelli erano i miei territori di caccia. È davvero riuscito a rappresentare le Hawaii come sono, al di là di arcobaleni e tramonti.
Che cosa legge regolarmente, per tenersi informato o per trovare spunti e ispirazione fuori dalla cerchia più ristretta dei suoi consiglieri? (Ride). A parte Rolling Stone?
Sì, ovvio. Non guardo molti notiziari. E la tv via cavo non la guardo affatto. Mi piace The Daily Show: se mi capita di essere a casa a tarda sera ne guardo dei pezzi. Credo che Jon Stewart sia fantastico. Mi colpisce il modo in cui riesce a mettere in luce tante assurdità: tra i giovani, in particolare, finisce per avere più credibilità di molti notiziari più convenzionali. Il mio tempo lo trascorro perlopiù a leggere studi, rapporti, resoconti, documenti di intelligence.
Giornali? Sfoglio tutti i principali quotidiani, ogni mattina. Per gli approfondimenti leggo New York Times, Wall Street Journal e Washington Post.
Legge i pezzi di Paul Krugman? Leggo tutti gli editorialisti del New York Times, e Krugman è chiaramente uno dei più brillanti economisti, ma leggo anche i columnist conservatori, per farmi un’idea precisa delle loro tesi. Ci sono alcuni blog — ad esempio, The Daily Beast di Andrew Sullivan — che combinano analisi meditate e un valido campionario di quel che accade nel mondo. Anche The New Yorker e The Atlantic fanno un ottimo lavoro. Poi, ogni tanto riesco anche a leggere un romanzo o un saggio.
Pensavo avrebbe menzionato anche Playboy... No. (Ride).
La maggior parte delle persone, quando le si chiede di cantare in pubblico, si emoziona e in genere si rifiuta di farlo. Lei, invece, è andato all’Apollo Theater e ha intonato un pezzo di Al Green... Erano più o meno le dieci e mezza di sera quando siamo arrivati all’Apollo. Io volevo sentire Al Green. I tizi che lavoravano al mixer mi dicono: “Oh, peccato, si è perso il concerto del Reverendo: ha cantato benissimo, era in una forma rara”. Ero dispiaciuto. Dato che avevo presenziato ad altri quattro eventi, chiacchierando per diverse ore dei più svariati argomenti politici, ho abbozzato lì per lì l’inizio di Let’s Stay Together. E quelli: “Ehi, ma allora il presidente sa cantare. Dovrebbe cantare sul palco”. Con noi c’era anche la mia senior adviser Valerie Jarrett, che diceva (Obama sussurra, facendo il gesto del taglio della gola): “No, no...”. E allora io ho esclamato: “Lo farò, certo! Credete che non ne abbia il coraggio?”. Ho guardato il mio addetto stampa Jay Carney che, forse per troppa stanchezza, mi ha incoraggiato: “Okay, vai”. Sono salito sul palco e ho accennato il brano. So cantare. Non avevo paura di stonare.
Abbiamo parlato, in passato, del suo incontro qui alla Casa Bianca con Bob Dylan e Paul McCartney. Di recente è toccato a Mick Jagger. Ci racconti un po’ com’è andata. Le performance quella sera sono state grandiose, ma i momenti più belli sono stati alle prove. Quando mi capita di assistere alle prove generali di un concerto, una delle cose che più mi piacciono è vedere la generosità delle grandi star con i musicisti coinvolti. Quando salgono sul palco non hanno più l’entourage e tutti gli aiuti: sono soltanto musicisti che fanno le loro prove. Mi è capitato quando è venuto McCartney, con Stevie [Wonder], con Herbie Hancock... Mick [Jagger] non è stato da meno. È stato stupendo vederlo suonare quei pezzi con i musicisti della casa e un paio di ragazzi che erano con lui, infinitamente meno famosi e con la metà degli anni o meno. Eppure lui si comportava con il massimo rispetto nei loro confronti, con la massima attenzione per la musica. L’indomani, la sera del concerto, Mick si alza in piedi e fa: “Una delle ragioni che rendono speciale questa serata è il ricordo di quando io e gli altri Stones siamo andati alla Chess Records”. Erano arrivati nel cuore della South Side di Chicago, probabilmente i primi inglesi che gente come Howlin’ Walf e gli altri della Chess avessero mai incontrato. Incluso B.B. King, che a sua volta avrebbe suonato quella sera. Mick ha parlato di quanto avesse apprezzato la generosità con cui quegli artisti avevano insegnato loro tutto ciò che sapevano di musica, anche se dovevano sembrare dei ragazzini arrivati da un altro pianeta. E lui sembrava voler fare la stessa cosa, per proseguire la tradizione.
Quindi, la sera precedente lei si è presentato alle prove e ci è rimasto a lungo... Sì, mi sarò trattenuto almeno tre quarti d’ora. Mi sono divertito molto guardandoli lavorare. Mick ha un’energia incredibile. Vi assicuro che quell’uomo, durante il concerto della sera dopo, era tonico com’è sempre stato.
Era previsto che lei cantasse Sweet Home Chicago, quella sera? Io sinceramente volevo evitare di cantare. Dalla mia performance all’Apollo, ovunque io vada, qualcuno mi chiede di cantare. Ma la mia idea è che meno mi esibisco, più il mio cachet aumenta, perciò cerco di non stratare.
Cantare potrebbe essere utile ad allentare la tensione, se si considera quanto è stressante e impegnativo il suo lavoro... Di solito, i giornali non parlano di quello che va bene: ne parlano, piuttosto, le persone che ne hanno sentito i benefici. Posso assicurare che non c’è un solo giorno in cui — da qualche parte, in qualche modo — io non senta parlare di qualcosa che ha avuto effetti positivi e diretti su qualcuno. C’è chi mi scrive: “Ho 25 anni e, grazie alla riforma sanitaria, ho potuto approfittare dell’assicurazione dei miei genitori; a un certo punto mi sono fatto un check-up e ho tempestivamente scoperto di avere un tumore. Ecco, volevo solo dirle che la terapia procede bene, e penso che la riforma sanitaria mi abbia salvato la vita”. Oppure stai salutando qualcuno, in occasione di qualche evento, ed senti dire: “So che lei è stato criticato perché molta gente si è vista requisire la casa, ma il suo programma per l’edilizia mi ha aiutato a rimanere nella mia casa, e questo per me ha fatto una gran differenza”. C’è molta generosità, tra la gente, e consapevolezza del fatto che questi sono tempi duri. In quei casi penso sempre a quale privilegio sia occupare la carica di presidente degli Stati Uniti. Si influisce sulla vita quotidiana delle persone, e a volte non ce ne si accorge neppure. I miei capelli sono diventati più grigi, e questo lavoro comporta botte e lividi, ma la mia fiducia nei cittadini americani è cresciuta, da quando sono entrato in carica, insieme alla mia determinazione a far bene e ad alzarmi ogni giorno con l’obiettivo prioritario di migliorare le loro prospettive. Una determinazione ancora più netta che nel 2008.