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 2012  ottobre 05 Venerdì calendario

ILARIA BERNARDINI: CERTI AMORI SI RIPENSANO

Lui e lei, nel primo weekend che passano da soli dopo la nascita del loro bambino: in programma hanno una festa e una pigra domenica di intimità. In quella Domenica, invece, che è anche il titolo del nuovo libro di Ilaria Bernardini, giornalista, scrittrice, autrice per il cinema e la tv, come in una scarica di tensione compressa, succederà di tutto. Compreso il probabile collasso di un’idea di amore, di un progetto familiare. Nella radiografia piuttosto cruda di un’implosione sentimentale, Bernardini, che incidentalmente è nipote di Annamaria Bernardini de Pace, noto avvocato matrimonialista, descrive l’approdo all’età adulta di un’intera generazione, in un gran clangore di sogni e aspettative infrante. Una storia piccola che forse incrocia le statistiche, che registrano un’impennata di separazioni nei primi tre anni di matrimonio di tanti trentenni, sotto l’assedio di ansie da lavoro e famiglia. Forse. Che è la parola che Bernardini pronuncia con più convinzione. «Ho scritto questo libro in un lungo arco di tempo, cominciato con la nascita di mio figlio Elia. È una storia covata in quel posto strano e nuovo del mondo che è la condizione di neomamma. A volte spaventoso, a volte struggente e malinconico».

Qui però si parla di una coppia.
Si prende la temperatura di un amore. Ma anche loro, come me mentre scrivevo, si ritrovano in uno spazio un po’ postapocalittico, che nel romanzo prende le forma di una città caldissima e vuota per ferie. È lì che si fermano, in panne, per capire dove sono finiti.

Lo scoprono?
Stanno nel mezzo della tempesta, dove c’è silenzio e immobilità. Fuori divampa lo tsunami, che forse ha a che fare con la fine dell’amore, o di come se lo sono immaginato fin lì. Forse invece è solo l’inizio di qualcosa di possibile.

Un racconto generazionale?
Della mia generazione c’è quel modo un po’ più storto di stare al mondo. Di reinventare una versione un po’ punk dei classici appuntamenti della vita.

Punk, in che senso?
Andiamo a vivere insieme, facciamo figli, ci separiamo in modo meno ordinato. Ogni nostra svolta produce un suono fortissimo, non armonico, non empatico, né socialmente assimilabile a quello dei nostri genitori.

Ha in mente un modello di famiglia più ordinato?
In realtà, negli amori, nelle separazioni, nella gestione dei figli, anche la mia famiglia è sempre andata a tentoni. Non ricordo se mi sia mai stato comunicato il divorzio dei miei. Ora invece, quando ci si lascia, si passano notti insonni a pensare a come dirlo ai bambini.

La parte più dolorosa.
Ma inevitabile: adesso i figli sono ben inseriti nella dialettica delle emozioni degli adulti, partecipano ai loro aperitivi, intervengono nei discorsi. Ma come lo spieghi, a uno di cinque anni, che non puoi più stare con suo padre? Quando, a momenti, non lo sai neanche tu.

Le parole per dirlo, le ha trovate?
Forse. Ma il tema è proprio questo: lo sento tutti i giorni intorno a me. A questo stesso tavolino, dove mi trovo ogni mattina con le mamme della scuola.

Sta dicendo che riuscire spiegare una separazione a un bambino aiuta a farsene una ragione?
Qualsiasi cosa ti attraversi la testa deve essere dicibile, un pensiero fatto per bene. Un lavoro di sintesi e onestà.

È un’idea scivolosa.
Anzi: nella vita 1.0, quella senza figli, la fine di un amore è anche e soprattutto una cosa narcisista, rischi di smarrirne i confini. Il fatto di doverla ridurre per una testa piccola e un cuore piccolo, aiuta a ridimensionarla.

Ma non a prevenirla, il romanzo è una mappa di segni premonitori.
È come fare la somma di tutti i torti dell’uno o dell’altro. Non è così facile.

Provo a dirne uno io: la constatazione di una parità impossibile.
C’è anche quella, da ragazzine era scontato che avremmo avuto come compagni persone solidali, collaboratori perfetti.

Probabile che le vostre mamme vi abbiano raccontato la favola sbagliata.
Arrivare a scardinare certe idee di coppia è una specie di tappa obbligata.

Ah davvero?
Dopo un po’, alla delusione si sostituisce una specie di accettazione: aver contribuito con ogni tua fibra a fabbricare piedi, mani, testa del tuo bambino è qualcosa di ineluttabile che sovverte ogni corvé, turno, diritto o dovere.

Così giovani e così rassegnate?
Mica tanto. Come la madre del mio romanzo, ti sembra di averci fatto la pace e invece diventa un’altra piccola battaglia. Una specie di fioretto che ti dovrebbe rendere migliore: essere una madre ineccepibile, esattamente come in altri momenti ti tocca di essere la più brava, la più bella, la più giusta.

Sempre e comunque una questione di prestazione.
Una cosa un po’ da martire, da vittima. Un altro modo per farsi amare.

Quando meno ci si sente desiderabili: un altro segno premonitore?
Quello che cambia è prima di tutto il cervello: lì dentro è tutto da ricompattare. E poi ci sono le ossa che si disarticolano, gli organi interni che migrano. Elia, uscendo, mi ha spostato persino l’osso sacro. È una cosa così splatter.

Come la madre del romanzo, che allo specchio si vede una spalla più bassa dell’altra.
È perché c’è sempre un bambino da addormentare, appoggiato qui, questa è la sua forma. Più che brutta o inadeguata, ti ritrovi riplasmata.

Lui però la trova brutta, altro segno?
Anche lei trova brutto lui, chi lo sa chi comincia per primo.

Gli uomini non cambiano come le donne.
Non so se sono tentata di desiderare che lo facciano o spaventata perché non succede.

Cambiati o no, i suoi coniugi pensano cose terribili l’uno dell’altro e non se le dicono. Anche questo le sembra normale?
Non mi sembrano pensieri così cattivi. Non è sempre così? «A che stai pensando, amore?». «A niente». Quanto a distrazione le donne sono terribili.

Che fa? Rovescia un altro cliché?
Quante sono le volte in cui sei a una distanza siderale da chiunque, anche se continui a rispondere al bambino, hai tutto sotto controllo? Quanti subpensieri, gloriosi o futili, ci attraversano, anche nei momenti più intensi? Lo notavo in mia mamma, lo vedo in me e in certe mie amiche. Gli smartphone poi hanno aggravato il vizio.

Covare pensieri ostili: neanche questo è il segno della fine?
No no, questo vuol dire amore, mi sa: riuscire a convivere con la certezza che al novantanove per cento stiamo pensando cose non compatibili, accettare l’idea che ognuno si faccia alla fine un film diverso.

In questa prospettiva dilatata, che cos’è il tradimento?
In senso affettivo, è quando un amore non è più il luogo in cui ti curi, ma quello dove abita il tuo nemico. Quanto al tradimento sessuale, credo che ogni coppia stabilisca la propria soglia del dolore, il punto di sgretolamento.

Con questi presupposti, lasciarsi è una specie di gestazione che rischia di non consumarsi mai.
Lasciarsi è niente. È soprattutto una cosa che ha che fare col concetto di assestamento. Più che un distacco è un ripensamento del modo di stare insieme, a tre, quattro, cinque. Un dare fiato al disperato istinto di sopravvivenza di un progetto inciampato nella quotidianità.

Vuol dire che i suoi personaggi potrebbero anche superare la boa di quella domenica?
Chissà. Lei che dice?