Caterina Calabrese, Sette 5/10/2012, 5 ottobre 2012
LA DONNA DEL MEDIOEVO CHE INVENTÒ LA DIETA E DIVENNE SANTA
«Ogniqualvolta il corpo dell’uomo mangia e beve senza discrezione o fa qualcos’altro di questo genere, le forze dell’anima ne sono ferite. L’anima ama in tutte le cose la moderazione». Questi pensieri, che potrebbero essere stati appena formulati, appartengono a Ildegarda di Bingen (1098-1179), che sarà proclamata Dottore della Chiesa domenica 7 ottobre. Dottore è il titolo che la Chiesa cristiana attribuisce a personalità religiose che nella loro vita e con le loro opere hanno dimostrato particolari illuminazioni per la dottrina. In duemila anni si fregiano di questo titolo solo 33 persone, di cui tre donne: Teresa d’Avila, Caterina da Siena e Teresa di Lisieux; Ildegarda è la quarta. Già nei documenti del suo tempo viene definita: magistra, domina, lei si percepiva come paupercula foeminae forma, cioè poverissimo essere femminile, e si definiva «l’ombra della luce vivente».
Ildegarda è la decima figlia di una nobile famiglia renana. «Sin dalla prima infanzia, forse tre anni, fui invasa da uno spargimento di luce, non veniva dall’esterno di me come un sole o una lampada, ma era uno slargo che s’apriva davanti ai miei occhi. Quella luce che mi aveva svegliato nel sonno mi chiamava, conosceva già il mio nome e quello che avrei dovuto essere», racconta nella sua autobiografia.
Da allora la Luce spesso si manifestava. Come accadde quella volta che andò a vedere le mucche al pascolo tenuta per mano dalla balia. La Luce la invade: «Tutto durò un attimo ma quando il mondo riprese i suoi contorni, mostrai alla balia col dito: guarda balia che bel vitellino tutto bianco con macchie marroni sul muso, sul dorso e sulle zampe. Di lì a poco nacque un vitellino tale e quale l’avevo visto dentro sua madre. Si sparse ovunque la notizia che “io vedevo”. Il velo del mondo per me si sollevava come una tenda e io guardavo oltre».
Le due madri. Dapprima cercò di respingerla, questa Luce. Ildegarda non voleva arrendersi poi, a poco a poco, dentro a quel biancore scivolò, come ci si arrende al sonno, accettando un altro destino. Fu oblata (donata perpetuamente) piccolissima come si fa in certe famiglie d’alto lignaggio, in cui si accasavano le figlie in esubero con Nostro Signore. Qui ha la fortuna di avere due madri: Jutta von Sponheim, bella e colta, e la sua serva Berthe, lontana consanguinea. Da Jutta impara la scrittura e la lettura. Jutta apriva le pagine di libri rari come se sollevasse una tenda, leggere era un piacere da gustare come quando si pilucca una bacca di lampone e la si tiene tra i denti. Ildegarda impara e «mi ascoltavo leggere, nell’aria la mia voce, e le mie parole prendevano le tinte di smalto delle miniature, vorticando sinuose come calligrafie. La pagina mandava odore di cosa viva, come una ciotola di latte», lo stesso di cui si era cibato l’agnello sulla cui pelle erano scritte le parole che leggeva. Da Jutta impara la scienza dei numeri, l’astronomia, «affinché levassi la vista dell’intelletto a intendere le leggi di quell’edificio nel quale Dio aveva posto la dimora dell’uomo, come sosteneva Giovanni Scoto». Da Berthe impara a erboreggiare distinguendo le erbe tra veleno e medicina che in greco hanno lo stesso nome pharmacon; riconoscendo piante capaci di dare guarigioni o morte come lo stramonium o la belladonna; raccoglievano campanelle intrise di miele, stecchi, foglie, balsami secchi, funghi e muschi odorosi. «L’ortica, per esempio, che ulcerava le mani, ridotta in succo e applicata sulle gambe, quando queste erano piene di vene rotte, sanava il guasto… una zuppa di mentastro metteva a posto lo stomaco del ghiottone, il fieno greco bollito combatteva l’inappetenza». Ildegarda curava traendo dalla natura che «verdeggiava, fruttificava e odorava in gloria di Dio».
Nella sua visione, l’uomo si inserisce perfettamente nell’universo. Sostiene, infatti, che c’è una corrispondenza fra le parti del corpo umano e l’universo, l’uomo è un universo in miniatura e l’universo è simile a un gigantesco uomo. «L’uomo e la donna, poi, sono l’uno il compimento dell’altro, senza squilibri di primogenitura». Tutto è uno.
Capelli e pettine. La fama di Ildegarda come guaritrice porta a lei una fiumana di gente “vorace, invadente” e incapace di comprendere «poiché anche il corpo li impediva […] Ognuno calcificava da qualche parte una malattia, come un grumo di capelli che non fa scorrere il pettine. In qualcuno l’umore, invece di scorrere limpido, diventava livido muco o schiuma e questo si gonfiava in un’ulcera o in un tumore. Il fegato, che nell’uomo è come un vaso in cui il cuore, il polmone e lo stomaco riversano i loro succhi, in certuni pareva traboccare oltre l’orlo. Gli umori cattivi si incarnivano in forma di fistole ovunque […]. I ricchi e potenti che pensavano di godere del mondo, così come facevano con le spezie, le carni stillanti di grasso e i vini liquorosi, erano paralizzati dalla gotta, costretti all’astinenza del cibo come padri del deserto. I poveri languivano perché mangiavano cibi senza sostanza. Ognuno nella vita pensava di fare il cacciatore, poi la malattia lo trasformava in preda». Per Ildegarda era «più facile parlare al corpo che non alla mente, la quale voleva sentire solo quello che desiderava». Si rivolgeva alla malattia «usandole gentilezza ed essa mi aiutava a sciogliere il dolore che non era stato ancora pianto, trasformandosi poi in piaga aperta, utero contratto. Quanta dolcezza portava finalmente un decotto di vino buono con dentro felce dolce e un poco di millefoglie per chi soffriva di febbre terzana (che dura tre giorni). Il fumo esalato da una cannuccia di aloe e mirra dava finalmente la pace a un dente verminoso».
In altre parole, Ildegarda, con l’aiuto delle erbe e dei medicamenti naturali, scioglieva i nodi che impedivano il giusto flusso della vita. Non dimenticando di lenire e far ritrovare la pace all’anima. Tutto è uno: ciò che in termini attuali si definisce visione olistica dell’uomo. Non è un caso che Causae et curae (tradotto in Cause e cure delle infermità, Sellerio) vede il libro I iniziare dalla creazione del mondo, dell’anima, della materia, degli angeli, il firmamento, delle piogge, dei venti, del sole, ecc.. Tutto è riconducibile all’Uno e spiegabile nell’Uno.
La cura dopo il danno. Dopo aver indagato le cause delle varie malattie (libro I e II) ne indica le cure (libro III). Ildegarda sostiene che per tutte le infermità elencate le medicine sono state mostrate da Dio e attinge per i medicamenti dalla “viridità” del mondo, un neologismo che indica insieme virilità, quindi forza, e verdeggiamento, intrinseco alla natura stessa. In lei si riuniscono la figura del dietologo (da dieta, cioè stile di vita), del fitoterapeuta, cristalloterapeuta. «Tuttavia, le diverse e nobili erbe, le polveri e i condimenti se mangiati senza regola alcuna causerebbero un danno, seccandone il sangue e macerandone la carne perché vanno usate con discrezione e ragionevolezza, là dove esistono gli umori sui quali le loro forze debbono scaricarsi, riducendo gli umori cattivi di cui gli uomini sono afflitti. Occorre assumerle col pane o nel vino o con un altro dei condimenti del cibo, raramente a digiuno ma soprattutto col cibo o dopo il cibo».
Il cibo diventa per Ildegarda un veicolo benefico, quasi un functional food ante litteram. I rimedi messi in atto tengono in considerazione le teorie mediche di Ippocrate e Galeno sulla natura del soggetto da curare, determinata dalla dottrina dei temperamenti, dati dalla combinazione di quattro fattori caldo/freddo, umido/secco, a loro volta espressione dei quattro elementi che costituiscono l’universo: fuoco, aria, terra, acqua. Bilanciando questi fattori si riequilibrano gli umori che causano il disturbo. Molte delle erbe medicamentose usate per determinati disturbi sono usate ancora oggi, nella fitoterapia moderna, come rimedi per gli stessi mali: mentuccia per il mal di stomaco, cumino contro la nausea e molti altri.