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 2012  ottobre 05 Venerdì calendario

LE MILLE VITE DI CURZIO CHE STAVA SEMPRE DALLA PARTE SBAGLIATA

Il Narciso della letteratura italiana teneva molto a una foto scattata in Africa Orientale: è in piedi mentre si rade nella savana, un ascaro in uniforme gli porge lo specchio con sussiego. Era orgoglioso anche di un’altra, spesso riprodotta: sta uscendo, nudo, da una sauna in Finlandia, e nasconde all’obiettivo l’essenziale dietro un ramo di betulla. In realtà, il rullino ne aveva fissate anche di più esplicite, dove lui scostava il ramo…
Il Narciso era fiero della tenuta delle guance, che, secondo la leggenda, tonificava applicandovi di notte delle bistecche crude, si depilava meticolosamente, curava l’acconciatura dei capelli in modo che un ciuffo non rovinasse l’ovale del volto. Il Narciso è Kurt Erich Suckert, ovvero, in arte e in vita, dal 1925, Curzio Malaparte, con dichiarata e temeraria allusione a Napoleone. Nato a Prato nel 1898 da una milanese che aveva sposato un industriale sassone che si occupava di tessuti, sempre secondo una leggenda cambiò il nome su consiglio di Mussolini, visto che, da Suckert, passava male come grande scrittore italiano.
«A parte le molte vite, troppe leggende aleggiano ancora intorno a lui. Dove trovare la chiave per un’interpretazione plausibile, in uno scrittore che ha fatto l’impossibile per confondere le piste?», scrive Maurizio Serra nella monumentale biografia Malaparte. Vite e leggende che, per Marsilio, esce ora in Italia, tradotta dal francese. È la storia di un’esistenza – e, altrettanto, di una produzione letteraria – affascinante e controversa: Malaparte fu per molti anni scrittore di enorme successo, per venire poi relegato nel sottoscala della cultura nazionale, fu un dandy e un divino mondano ma anche una figura solitaria e per certi aspetti introversa, fu iperfascista e poi comunista, fu perseguitato dal regime ma anche recuperato da Mussolini medesimo senza troppi danni, confinato per brevi periodi e protagonista di una contrastata storia d’amore con la vedova del padrone della Fiat (dagli scontri con la dinastia, trarrà un detto: «Meglio un giorno da leone che cento da Agnelli»), autore di libri crudissimi sull’Italia sconfitta, poi affannato e scontento sopravvissuto nella Roma del dopoguerra.

Trincee nemiche. Giovanissimo, partì volontario sul fronte della Prima guerra mondiale. Per una delle strane combinazioni della storia, nelle trincee che lo fronteggiavano nemiche c’era un altro grande della cultura europea, Ernst Jünger, l’autore di Nelle tempeste d’acciaio, dai temi affini a quelli di Malaparte. «Pochi intellettuali della sua epoca hanno predetto con tanta precisione e denunciato con più vigore il declino dell’Occidente», osserva Serra riferendosi allo scrittore italiano. Il quale è fascista della prim’ora, partecipa alla marcia su Roma e recita una parte ambigua nel delitto Matteotti. Al tempo stesso costruisce facce diverse e opposte su tutti i piani. Partecipa a Strapaese con Leo Longanesi e Mino Maccari ma anche a Stracittà con Massimo Bontempelli. La biografia di Serra si addentra in queste contorsioni. Una delle sue prime opere è Téchnique du coup d’état, uscito a Parigi nel ’31 e solo nel ’48 in Italia. Mussolini apprezza il libro ma lo proibisce. Il saggio non piace ai governi totalitari, non piace ai liberali, non piace ai rivoluzionari, anche perché si può leggere al contrario come un “manuale di difesa dello Stato”. Nel fascismo si muove in una mezz’acqua che non è neanche fronda. Vorrebbe conquistare il duce ma non riesce a frenare le impertinenze.

Prima di Indro. Da vero toscano, Malaparte si farebbe impiccare pur di non rinunciare a una battuta. E sarà una lunga gara, talvolta velenosa, con Indro Montanelli, chiusa coerentemente negli ultimi giorni di vita: «Mi dispiace soltanto di morire prima di Indro». Con Mussolini, il tono è meno definitivo. Serra racconta di una volta che lo scrittore viene ricevuto a Palazzo Venezia: «Il duce, dopo averlo a lungo ignorato, senza invitarlo a sedersi, gli rivolge una severa reprimenda per essersi preso gioco in pubblico delle brutte cravatte che porta. Contrito, Malaparte riconosce la sua colpa, giura che non lo farà più e, al momento di uscire, chiede umilmente, un’ultima volta, la parola: “Che altro c’è?” lo apostrofa freddamente il duce. “C’è che... anche oggi, portate una cravatta orrenda”».
Negli anni del regime vive alti e bassi. Questi ultimi li gonfierà retoricamente. Dirà di aver passato anni al confino. In realtà, a Lipari rimase pochi mesi, prima di essere trasferito a Ischia, poi a Forte dei Marmi, infine graziato. Entra nel giro snob di Edda e Galeazzo Ciano, poi li rinnega. Golf handicaps, uno dei capitoli di Kaputt, descrive la società romana alla vigilia della crisi del regime, con nomi propri e nomignoli, è quasi una Dolce vita felliniana. Intanto ha intrecciato una relazione con Virginia, la vedova di Edoardo Agnelli. Racconta Serra: «È l’incontro di due nature senza remore… La polizia è in agguato. Un informatore racconta che i due innamorati si fanno notare per... antifascismo alcolico al ristorante, dove rifiutano di bere cognac di produzione locale per ordinare la miglior marca francese, in piena campagna del regime contro le “inique sanzioni” della Società delle Nazioni. E il denaro alimenta i pettegolezzi: dove Malaparte appena uscito dal “confino” ha potuto trovare le 300.000 lire che sono il prezzo di Villa Hildebrand?… forse Virginia c’entra qualcosa?».
Eppure non si riesce a inquadrare l’avventura di questa vita nel puro opportunismo. È vero che, dall’inizio alla fine dell’epopea, si trova in Malaparte un elemento fascistoide che non si smentisce mai: il gusto della forza, sola vera ideologia di un uomo che le disprezzava tutte. Però, anche, a forza di correre incontro ai vincitori, lo scrittore riesce a situarsi quasi sempre dalla parte sbagliata: «Con un amore per le cause perse che forza l’ammirazione», secondo Serra. Questo, per Giuseppe Scaraffia, che lo evocò nel suo Gli ultimi dandies (Sellerio), «marca l’abisso che lo divide dai cortigiani».

Dalla parte giusta. Il dolce confino e le gentili persecuzioni permettono comunque a Malaparte di stare dalla parte giusta alla fine della guerra. Ufficiale di collegamento con gli alleati, nel conflitto trova materia per i suoi libri più celebri, Kaputt e La pelle (che avrebbe voluto intitolare La peste se Camus non fosse arrivato prima di lui): «La Seconda guerra mondiale, con il suo corteo dantesco di atrocità, era il tema ideale per la sua penna e lo sfondo di cui aveva bisogno per rivelarsi nella sua piena maturità di scrittore… Kaputt costituisce, da ogni punto di vista, una svolta nell’opera di Malaparte. Già il titolo è una trovata ingegnosa che, come lo pseudonimo del suo autore, può risuonare in tutte le lingue, con la stessa connotazione lugubre. Malaparte non si è mai tanto accostato alla storia senza credervi, o quanto meno senza credere che essa abbia un senso o un valore di insegnamento per i capi, gli individui e i popoli, destinati a ricadere sempre negli stessi errori e nelle stesse follie. Resta fedele a se stesso: nessuna traccia d’indignazione, e ancor meno di impegno sociale o di inquietudine metafisica in ciò che riferisce», sottolinea Serra.
Questi romanzi del dopoguerra oscillano fra denuncia e ritratto compiaciuto di un degrado da cui l’autore si ritiene escluso. Malaparte dichiara guerra ai premi letterari (dopo che La pelle perde lo Strega nel 1950 contro La bella estate di Pavese) e attacca i vizi del sistema culturale come se non ne avesse mai fatto parte. Nel libro si ricorda Battibecco, una rubrica tenuta su Tempo, settimanale: «In cui sfoga il proprio estro e i propri umori, sui temi più diversi, da precursore di quello sport nazionale tuttora imperante che è la tuttologia. Alcune di queste pagine sono lucide e graffianti, e annunciano il Pasolini degli Scritti corsari. Come lui, anche se per motivi opposti, Malaparte mitizza un’Italia pre-borghese, “povera e bella”, contadina e aristocratico-proletaria, alla quale, a differenza di Pasolini, sotto sotto non crede affatto». Intanto, sul piano politico, Malaparte brancola. Si avvicina ai comunisti. Togliatti lo apprezza ma gli intellettuali del partito gli danno l’ostracismo. Allora torna nel campo opposto. Si ritira a Capri, nella villa sensazionale che si è fatto costruire a Capo Massullo, ma anche lì avrà i suoi guai. L’ultima avventura è clamorosa come il resto della vita.

Conversione finale. Alla fine del 1956 parte per un reportage dalla Russia e dalla Cina (scoppia la rivoluzione a Budapest ma non scrive un rigo, parla vagamente di «errori di Stalin»). È la seconda che lo affascina: «Del popolo cinese ama subito tutto, la gentilezza, la bontà, la semplicità di modi, e non sembra accorgersi della feroce dittatura del Grande timoniere», scrive Serra. Ma laggiù si aggrava la malattia polmonare che si trascina da anni per i gas respirati durante la Prima guerra mondiale. Tornato in 
Italia, Malaparte muore nel luglio 1957, non senza che al suo capezzale si scateni, fra destra e sinistra, una gara sgraziata per conquistarsi la sua adesione definitiva. Vince la Chiesa, che ottiene la conversione.

I ricordi del presidente napolitano
«A Capri nel gennaio del ’44...»
Riproduciamo qui una parte del colloquio fra Maurizio Serra e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che viene pubblicato in appendice al volume.

Signor presidente, potrebbe raccontare in quali circostanze fece la
conoscenza di Malaparte?
«Fu nel gennaio 1944, a Capri, dove una parte della mia famiglia era stata evacuata. Napoli aveva subito più di cento bombardamenti devastanti e la liberazione era stata seguita dalla carestia, nell’inverno 1943-44. Nondimeno, la città ricominciava a vivere e avevamo appena pubblicato il primo (e solo) numero di una rivista intitolata Latitudine, vicina ai comunisti ma indipendente, che affrontava temi audaci come l’ermetismo, il surrealismo e la letteratura americana, e conteneva citazioni di autori eretici come Gide e Malraux. Ebbi l’idea di andare a farne omaggio a Malaparte».
Quale fu la sua reazione?
«Devo dire innanzitutto che noialtri giovani universitari napoletani, appassionati di letteratura, di poesia, di teatro, di cinema, formavamo una comunità molto vivace già nel 1942-43, prima della caduta del fascismo. Ho debuttato io stesso come critico cinematografico e regista nel teatro universitario, accanto ad amici che si sono fatti conoscere in seguito come Giuseppe Patroni Griffi, Luigi Compagnone, Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Massimo Caprara, futuro segretario di Togliatti. Eravamo quindi orientati a sinistra, ma non condividevamo il pregiudizio contro Malaparte dei dirigenti comunisti appena usciti dalla clandestinità. Anzi, la copertina rosso sangue di Prospettive, che si apriva con il suo grande servizio dall’assedio di Leningrado, intitolato Sangue operaio, ci aveva entusiasmati. Considero ancora oggi che le corrispondenze de Il Volga nasce in Europa rappresentino quel che ha scritto di meglio, con Kaputt. Per farla breve, non conoscevamo il suo passato d’uomo compromesso col regime, ma, in quanto intellettuale, lo sentivamo vicino a noi».
E il suo atteggiamento lo confermò?
«Assolutamente, fu prodigo di elogi e ci incoraggiò a continuare.Purtroppo la nostra rivista era stata accolta male dai responsabili della federazione napoletana del Pci, il che ne provocò la fine e accrebbe le mie perplessità riguardo al partito. Decisi allora di prendere le distanze e andai a fare la mia prima esperienza di lavoro in una filiale della Croce Rossa americana, a Capri, che era stata trasformata in campo di riposo dell’aviazione degli Stati Uniti. Ciò mi diede l’occasione di vedere Malaparte molto spesso, quasi quotidianamente, fino all’incirca all’autunno 1944, allorché le nostre strade si separarono. Con me era di una grande disponibilità, cosa che mi colpiva, anche perché tutti lo conoscevano, ma piuttosto da lontano. Era considerato un eccentrico e si mescolava poco alla vita locale. Aveva, in definitiva, pochi amici, tra cui l’ambasciatore Rulli. Dire che avesse una grande opinione di sé è dir poco; ma aveva anche una spiccata capacità di seduzione, un fascino notevole. Parlava di tutto: i suoi incontri, i suoi viaggi, le sue idee sull’arte e l’avvenire del mondo. Era quasi una replica di Kaputt che si svolgeva sotto i miei occhi, cosa che ho capito solo più tardi, quando mi offrì la prima edizione del libro, pubblicata dall’editore Casella, a Napoli, con una dedica molto lusinghiera: “A Giorgio Napolitano, che non perde mai la calma, nemmeno durante l’Apocalisse”, con riferimento alle devastazioni di Napoli…».

Va aggiunto che, quando Serra si recò al Quirinale per consegnare a Napolitano la prima copia dell’edizione francese del libro, Jean-Paul Enthoven, direttore di Grasset, l’editore francese, chiese al presidente un sintetico giudizio su Malaparte. La risposta, secca, fu: «Un uomo spavaldo».


amato dagli americani
La dedica a Henry Miller
In La pelle, Malaparte esalta il suo ruolo di ufficiale di collegamento con gli eserciti alleati forse al di là della realtà effettiva. È certa, invece, la sua fortuna negli ambienti letterari americani. Un grande critico come Edmund White ha scritto di lui: «Aveva un modo affascinante, probabilmente unico, di combinare la verità dell’autobiografia con la stravaganza dell’immaginazione mitopoietica. Nei suoi due capolavori, Kaputt e La pelle, si dimostra un narratore sottile e perfino modesto, ma ciò che narra supera ogni credibilità». Il libro di Maurizio Serra presenta, inoltre, una lettera inedita di Henry Miller. Datata Big Sur, 28 giugno 1948, comincia così: «Caro Curzio Malaparte, è stata una sorpresa molto gradita quella di ricevere un esemplare de La Volga naît en Europe, con una dedica di suo pugno. Avevo già un esemplare di Kaputt, che purtroppo non ho ancora letto… Sono arrivato a metà del suo libro e faccio fatica a posarlo. Non conosco alcun corrispondente di guerra di lingua inglese che abbia il suo approccio poetico…».