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 2012  ottobre 05 Venerdì calendario

DA PASSIONE A OSSESSIONE LA NUOVA STRANA EPIDEMIA

Carlo non riesce a buttarne via neppure uno, i giornali si accumulano giorno dopo giorno in pile ordinate e interminabili. Ormai sfiorano il soffitto di casa. Inutile chiedergli perché. Risponde che un giorno, chissà, quel pezzo di carta lì, proprio quello che sta sotto tutti, potrebbe tornare utile, forse contiene una notizia indispensabile. Oppure no. Nel dubbio non si butta. Mario, invece, si alza ogni mattina con tanti dubbi e adrenalina: dove mi procuro i soldi, come evito le domande di mia moglie e, soprattutto, che numeri punto? Lo sguardo della cassiera, che alla sessantesima giocata iniziava, pure lei, a squadrarlo strano, ora può evitarlo. Scommette senza tregua in Internet, e nessuna faccia lo giudica più. A Enrico l’azzardo non interessa, ma davanti al computer ci vive. Anche diciotto ore del suo giorno si perdono dentro il monitor, la vita fuori non c’è più. È recluso. I genitori non riescono a farlo uscire dalla cameretta, i professori non lo vedono più a scuola. Inermi e impotenti.

Obiettivo accumulare. Gli anglosassoni lo chiamano hoarding, accaparramento, ed è probabilmente con questo nome che il “collezionismo patologico” entrerà nel prossimo Manuale diagnostico dei disturbi mentali (DSM-V), la Bibbia mondiale di psichiatri e psicologi. Capire quando la “passione” si fa “ossessione” non è difficile: diventa un’esagerazione, per tempo e risorse dedicate, una dipendenza non dissimile da quella da farmaci, droghe o alcol. Chi ne soffre, come i tossici, non tollera che si frapponga alcun ostacolo fra la bramosia del collezionare e la sua realizzazione. «Ci sono accumulatori che stipano hangar interi e se qualcuno interferisce reagiscono in modo violento», racconta Stefano Pallanti, direttore della scuola di specializzazione in psichiatria dell’Università di Firenze ed esperto di disturbi ossessivo-compulsivi. È un fenomeno in crescita che riguarda i campi più disparati: oggi si parla di animal hoarding, quelli che riempiono la casa di gatti o altri animali, di book hoarding, i bibliomani che arrivano ad acquistare copie multiple dello stesso libro, di email hoarding, quelli che non riescono a svuotare la propria cassetta postale nel computer, e via dicendo. Alla base c’è un disturbo dell’attenzione, che impedisce di fissare il ricordo delle cose accumulate, e/o disturbi affettivi, che provocano una disfunzione della percezione del piacere e del valore etico ed economico delle cose. Insomma, chi ne soffre non riesce a disfarsi degli oggetti perché non sa se gli piacciono o no, se valgono qualcosa oppure sono patacche. E si arriva al caso estremo, in cura da Pallanti, che si erge a fustigatore del consumismo sfrenato, pur di continuare a “salvare” e collezionare oggetti. Giuseppe è un uomo sulla trentina che passa le giornate a rovistare nei cassonetti della pattumiera o negli immobili dismessi in cerca di cose da recuperare. «Mi dice spesso: “Ma ha visto quante cose si buttano via che ancora possono servire?” e avrà pure ragione ma intanto per lui è una dannazione, perde la sua esistenza intorno a questi rituali di recupero», spiega il suo medico. Diverso è il caso del bambino che colleziona giochi, figurine o peluche: è normale a quell’età, anzi il mercato sfrutta senza troppi scrupoli questa “debolezza fisiologica”, che di norma passa con l’età, spingendo all’acquisto l’anello più debole della società e depauperando ulteriormente le famiglie. Debolezza che può ricomparire in età senile, spesso associata a un disinteresse per la cura di sé: «Un esempio di hoarding è quello che accompagna la Sindrome di Diogene: chi ne è affetto trascura le più elementari regole d’igiene personale, accumulando oggetti o animali intorno a sé e mettendo a rischio anche la propria sicurezza», conclude Pallanti.

Un fenomeno in aumento. Discontrollo e impulsività: sono le parole-chiave delle nuove dipendenze comportamentali, in forte ascesa in tutto il mondo occidentale. «Purtroppo gli studi sono ancora sporadici e non permettono di avere un quadro complessivo ma l’aumento sulla popolazione generale è evidente. In alcune fasce di età, come l’adolescenza, è accertato da indagini epidemiologiche che mettono in luce una sempre maggiore precocità di questi comportamenti compulsivi, che ora si presentano già alle secondarie inferiori (le scuole medie). Questo vale per le dipendenze da sostanze, ben conosciute e sempre più diversificate, ma anche per le dipendenze da Internet, gioco d’azzardo patologico, comportamenti a rischio su base impulsiva», dice Massimo Clerici, professore di neuroscienze all’Università di Milano-Bicocca. Secondo cui la spiegazione sociale è evidente: quello che prima era compresso e condizionato dall’educazione, dalle norme rigide dell’apprendimento intrafamiliare e scolastico, oggi esce allo scoperto. Magari aiutato dal fattore scatenante di sostanze eccitanti, reperibili molto facilmente. «Diversi studi biologici dimostrano come un cervello estremamente plastico, qual è quello degli adolescenti, viene modificato dagli effetti delle sostanze ma anche da comportamenti che abbiano una forte caratteristica di ricompensa o gratificazione, come appunto possono avere i giochi in Internet, i social network, i videogiochi». Il pressing culturale, però, è forte anche sugli adulti, travolti da una tecnologia che alimenta i comportamenti ossessivo-compulsivi: quanti di noi, se il telefono non squilla per più di un’ora, si mettono la mano in tasca per controllare se, per caso, non si è spento accidentalmente?
Quando il desiderio diventa “bisogno”. Dipendenza non è in sé sinonimo di malattia. «È uno stato della mente – quando siamo neonati anche del corpo – che attesta la nostra capacità di legarci agli altri. Se è sana crea sempre un legame creativo. Poi, però, esistono le dipendenze patologiche: la difficoltà è capire dov’è il crinale che separa la salute dalla malattia mentale», spiega lo psichiatra Federico Tonioni, responsabile dell’ambulatorio per la dipendenza da Internet al Policlinico Gemelli di Roma e autore di Quando Internet diventa una droga, in edicola allegato al Corriere della Sera dal 26 ottobre (collana Biblioteca dei genitori). «Il crinale è rappresentato dalla compulsione, quella che lega la ragazza bulimica al barattolo di nutella: se le viene chiesto di aspettare cinque minuti a mangiarla, non ci riesce. Il desiderio prevede capacità di attesa, la compulsione no. È un bisogno».
I neonati non sanno aspettare: non desiderano la poppata, ne hanno bisogno. Scelta e desiderio sono appannaggio di una mente evoluta, che però sembra andare in tilt in chi soffre di una dipendenza compulsiva. Non più solo da droghe e alcol, ma da gioco d’azzardo, Internet, shopping, bulimia, perfino lo sport può dare crisi di astinenza.
Dipendenze in forte aumento perché l’intera società è diventata più compulsiva, secondo Tonioni: «La digitalizzazione delle relazioni, dal telefonino ai social network, ha azzerato la capacità di attesa. Lavoriamo in multitasking, facciamo le cose in sovrapposizione. Siamo all’interno, senza saperlo, di un cortocircuito. Viene tutto veicolato come urgente; “entro e non oltre” è una frase che ricorre sempre. E tutto ciò facilita la compulsività; ci riporta mentalmente a un’epoca della vita in cui avevamo diritto a non attendere, cioè a quando eravamo neonati».
Uno degli effetti più devastanti della dipendenza, online o no, è la dissociazione dalla realtà: le persone all’interno di una compulsione non sono iperconcentrate, sono assorte, dissociate, quasi in trance. Come in un sogno a occhi aperti che, invece di pochi secondi, dura ore o giornate intere. L’esempio classico è il giocatore d’azzardo. Come Mario, che ha la mente concentrata, “invasa” quasi, dalla giocata. Pensa ai numeri tutto il giorno, li cerca nelle targhe delle macchine, nelle parole delle persone che incontra, chiede allo psichiatra di interpretare i suoi sogni per ricavarne un numero. «E così riesce a tenere lontano dalla mente contenuti terribili di depressione, paranoia o qualsiasi altra cosa che per lui è assai peggiore della compulsione», spiega Tonioni. Internet, poi, esalta il fenomeno in modo esponenziale, perché con il computer si può giocare da mattino a sera, anche i soldi diventano numeri e nessuno può più fermare la mente compulsiva. Che online può trovare pane per i suoi denti, ben oltre il gioco d’azzardo: siti porno, video-chat, giochi, “chiavi” che permettono di entrare nelle vite degli altri. Come ha fatto Giacomo, quasi impazzito quando s’è messo a spiare la fidanzata con un software (illegale) che scaricava sul suo telefonino tutte le email, gli sms, i messaggi di social network in arrivo sui supporti tecnologici della ragazza.
Gli adulti rappresentano il 20% degli Internet addicted, il restante 80% è composto da “nativi digitali”, ragazzi tra gli 11 e i 23 anni, ma in questo caso il profilo è totalmente diverso. A differenza dei “grandi”, in genere frequentano contesti interattivi della rete: prediligono, per esempio, il gaming, giochi molto aggressivi, che agganciano perlopiù i maschi e hanno a che fare con la costituzione dell’identità. «Di norma, non parliamo di dipendenza con gli adolescenti; pensiamo invece di trovarci davanti a un altro modo di pensare e comunicare che va approcciato con grande umiltà. Noi, come psichiatri, ci occupiamo solo di quegli ambiti dove c’è un dolore mentale, quando ce lo chiedono i ragazzi», conclude Tonioni. «Non dobbiamo confondere delle fasi di abuso, adolescenziali, con una dipendenza patologica, che cela sempre un’angoscia più profonda».

Effetto “hikikomori”. Enrico è un Leopardi del XX secolo. Come il poeta di Recanati si recluse nella biblioteca di famiglia per i suoi anni di “studio matto e disperatissimo”, Enrico ha cercato di dissolvere le sue paure online. Chiudendosi in camera. Ingrassando. Rifiutando di andare a scuola. E restando connesso per 16 ore al giorno.
Enrico è il protagonista di Il banco vuoto (FrancoAngeli), uscito dalla penna di Antonio Piotti, professore di filosofia e psicoterapeuta del gruppo Minotauro, che di giovani come Enrico ne ha incontrati un bel po’. In Giappone, dove sono un milione (quasi fosse un contagio, e alcuni sono già quarantenni), li chiamano hikikomori, “reclusi”. Gli psichiatri occidentali preferiscono parlare di “ritiro sociale acuto”. Quasi sempre provocato da un senso di inadeguatezza e da un malessere profondo, rispetto alle richieste della società. «Viviamo in un mondo di ideali narcisistici che esasperano le difficoltà degli adolescenti. Perfino i genitori, più vittime che colpevoli, rincorrono l’ideale di figli perfetti, fisicamente e socialmente “adeguati”, anche sul piano sessuale», spiega Piotti. Dati recenti stimano che ben l’1% dei ragazzi è dipendente da Internet, cioè resta connesso 8-10 ore al giorno. Tra questi ci sono gli ultrautilizzatori, che online effettuano una massa enorme di collegamenti con altre persone, e i reclusi, molto più preoccupanti perché usano Internet in solitudine, per ascoltare musica, giocare, surfare in rete, creare avatar. Sempre senza contatti, reali o virtuali, con altri. Eremiti dentro Internet. La dipendenza in questi casi non è il problema ma l’effetto di un disagio più profondo, Internet diventa il rifugio in un mondo “altro” senza il quale alcuni ragazzi potrebbero perfino compiere scelte estreme. Come il suicidio. Un genitore cosa può fare? Piotti consiglia di “insegnare ai figli a fallire”: «Un atteggiamento materno troppo narcisistico, di eccessiva esaltazione del figlio, è controproducente. La madre deve essere un “porto” dove vai quando stai male, che ti ascolta e non sarà mai delusa da te, anche se hai fatto una cosa terribile. E il padre deve saper smitizzare, aiutarti a comprendere che nella vita non sempre si ha successo, che accetta di mostrarsi con le sue fragilità, senza nasconderle». Nessuno è perfetto, insomma. Nessuno è normale.