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 2012  ottobre 05 Venerdì calendario

JULIETTE COSÌ COM’È

Le donne , i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese e soprattutto il canto: racconta tutto del suo passato Juliette Gréco nell’autobiografia "Je suis faite comme ça" (Flammarion, in Italia uscirà da Dalai). È tutto al presente invece il nuovo disco " Ça se traverse et c’est beau...", uscito per la Deutsche Grammophon: niente cover, niente successi di ieri ma inediti scritti per lei da romanzieri, autori di teatro, jazzisti, e arrangiati dal marito pianista Gérard Jouannest. Un libro e un disco che guardano al futuro per un’ottantacinquenne che alle domande sull’età taglia corto: «È il tempo che invecchia, non io».
Parlando della sua vita ha detto che si sente un’esploratrice in viaggio. Come procede la spedizione?
«Sono ancora in giro, e mi sorprende. A volte mi sento un po’ stanca, mi limito a guardare il mare cambiare colore dall’alba al tramonto. Ma vado avanti come una macchinetta. La mia furia è leggendaria, oggi come ieri. Ero un enfant terrible, ora sono una vecchia insopportabile».
La disturba l’etichetta di musa degli esistenzialisti?
«Un tempo sì. Ora li lascio dire. È vero che ho incontrato personaggi straordinari. Picasso, Cocteau, Gainsbourg, Prévert, Merleau-Ponty, Miles Davis, Boris Vian, Sartre, Simone de Beauvoir. Quando i giovani vengono a trovarmi in camerino capisco che vorrebbero tanto aver vissuto allora: oggi per loro è un sogno».
Com’era in realtà?
«È stato davvero un momento magico. Sembrava che ogni barriera fosse caduta, tutti parlavano con tutti. I quattro anni di occupazione tedesca furono anni di silenzio, di guerra, di orrore. Quando la libertà tornò, pervase tutto: i discorsi, i corpi, le teste. Fu straordinario, e siamo stati noi a dar fuoco alla miccia».
Come mai il fuoco divampò proprio a Saint-Germain-des-Prés?
«Forse perché era un quartiere borghese, ricco, era tutta Parigi. Forse però è semplicemente perché i francesi hanno a cuore la libertà più degli altri. Non abbiamo molti pregi, ma uno è questo».
Si direbbe che la Parigi dell’epoca fosse il luogo più libero del mondo.
«In effetti era molto più libera di Londra o di New York. L’America all’epoca era molto puritana, non esisteva il diritto all’omosessualità né alla libertà sessuale. Donne nude in palcoscenico? Impensabile. Resta però un enigma perché proprio Saint-Germain-des-Prés sia diventato un luogo mitico. Sì, c’erano un paio di locali notturni e due caffè, il Deux Magots e il Flore...».
Lei ha scritto che quei locali sono stati la sua università.
«Ho lasciato la scuola a quattordici anni, ero timida e molto particolare. Se leggevo Sartre, la Beauvoir o Merleau Ponty non capivo nulla. Ma appena mi sono seduta a tavola con loro ho capito tutto. Mi sono letteralmente nutrita delle parole dei miei mentori».
Com’era Sartre a tu per tu?
«Niente affatto amletico, come molti lo immaginano. Era divertentissimo».
È vero che fu lui a spingerla a cantare?
«Sì. Una volta dopo aver cenato assieme al Cloche D’Or a Montmartre - stavamo rientrando a piedi perché non avevamo più i soldi per il taxi - si voltò e mi chiese: "Ha intenzione di fare la cantante?". Io risposi: "No, signore, non ci penso affatto". E lui: "Venga da me domani alle nove. Ho qualcosa per lei". Così andai da lui alle nove, che per me era l’alba, e mi disse: "Ho dei testi per lei". A due di quei testi sono rimasta legata: "Si tu t’imagines" di Raymond Queneau e "L’eternel feminin" di Jules Laforgue».
Era ancora giovanissima, si sentì lusingata dall’attenzione del grande filosofo?
«All’epoca non ci badavo. Per me era solo una persona amica e pronta ad aiutarmi. Devo dire che molti autori di cui ho cantato i testi sono diventati famosi dopo. Sono stata la prima a cantare Brel, ad esempio. La prima a incidere un disco completo di brani di Gainsbourg. Mi si rimprovera di aver cantato solo grandi autori, ma all’epoca erano piccoli…».
Qual è il segreto della brava cantante?
«Per me il canto è un po’ come il teatro: do vita a qualcosa che altri hanno scritto. Lo trasmetto attraverso il mio corpo».
Ha mai pensato a comporre?
«No, ho sempre avuto ottimi autori: preferisco mettermi al loro servizio. Per me i testi sono creature che vogliono essere comprese. Io ascolto le parole cercandovi messaggi nascosti. Se li trovo adotto il testo, quasi fosse un bambino».
Per cantare bisogna far proprio il testo?
«Si può addirittura mutare il senso di una canzone, come ho fatto io con "Ne me quitte pas". Mi irritava il tono lamentoso di Brel, quel "ti prego, ti prego non mi lasciare". Io ho trasformato la canzone in una prova di forza: se mi lasci vedrai che ti succede, stai attento!».
In concerto lei utilizza molto la gestualità, sono movimenti studiati?
«Non c’è nulla di costruito, i gesti nascono dentro, vanno in circolo come il sangue e arrivano alla punta delle dita: il gesto fa parte della parola».
Come un mimo?
«Esatto. Marcel Marceau negli anni Quaranta si esibiva al Rose Rouge di Parigi, come me, e ogni sera lo osservavo con ammirazione. Una volta mi disse: "Fammi vedere le mani!". E io: "Perché?". "Perché hai la stoffa del mimo". Fu un bellissimo complimento».
In tutti questi anni è rimasta fedele alla sua immagine, non ha mai cambiato look.
«Perché avrei dovuto?».
Lo fanno in tante, Madonna ad esempio.
«Oh, a ciascuno il suo! Io mi sento più a mio agio così».
Il volto pallido, i vestiti sempre neri, le ciglia finte… È la sua maschera?
«È un’armatura. La vestizione in camerino per me è un rituale».
A cosa serve?
«A essere meno fragile. E a sembrare più bella».
Come nacque lo stile Gréco?
«Fondamentalmente feci di necessità virtù. Nella piccola pensione dove avevo preso una stanza c’erano molti studenti. Io non avevo nulla, così mi passavano i vestiti. All’inizio portavo i pantaloni del mio vicino di camera, arrotolati, perché erano troppo lunghi. Appena misi insieme un po’ di soldi ne comprai un paio neri e vi accostai un pullover nero. Feci furore. Nel 1950 all’improvviso tutta la Costa Azzurra vestiva di nero».
Una donna vestita da uomo...
«Già negli anni trenta Marlene Dietrich portava i pantaloni, ma nessuno se ne ricordava. E poi i suoi erano pantaloni elegantissimi, firmati Chanel! Io invece mi vestivo da ragazzo e quello stile resite ancora».
E poi venne il tubino nero.
«Lo devo a Nikolas Papadakis, all’epoca proprietario del Rose Rouge. Mi disse: "Senti, non puoi più cantare vestita così, da Balmain c’è una svendita, andiamo assieme". Fui colpita da un abito nero semplicissimo che aveva un enorme strascico dorato, e lui me lo comprò. A casa però decisi di eliminare lo strascico: lo tagliai via con le forbicine da unghie».
Qual era il messaggio dello Stile Gréco?
«Io sono come sono, voilà! Ancora oggi molte donne mi abbracciano incontrandomi e mi dicono: "Senza di lei non sarei andata per la mia strada"».
Anche per lei quell’abbigliamento ha significato liberazione?
«Oh no, io ero già liberata. Sono state le altre a imitarmi. Andavo dal parrucchiere solo a farmi lavare i capelli, mi truccavo solo gli occhi, ho scelto io il mio partner. Facevo quello che volevo e guardavo la gente dritta in faccia: uno scandalo!».
I personaggi famosi di cui scrive nella sua autobiografia non erano un po’ maschilisti?
«Gli uomini? Tutti!».
E questo non la disturbava?
«Per niente. Mi facevano ridere. E fanno ridere ancora. Certo, quando esagerano vanno fermati, ma è una questione di educazione, gli hanno insegnato così».
Si definirebbe una femminista?
«Sì, entro certi limiti. Ancora oggi ogni giorno è una battaglia, troppa pressione, troppi atteggiamenti denigratori, e vedo segni di stanchezza. Anche se molte cose sono cambiate in meglio».
Cosa pensa che vedessero in lei gli uomini che scrivevano le sue canzoni? Una donna emancipata o una bambina ribelle?
«Non l’ho mai capito bene. Perché proprio io? È un mistero e un dono. Una sola cosa so: voglio farne partecipi gli altri, perché tutti moriamo, si sa, ma la vera morte è l’oblio».
Qual è il brano più rivelatore della sua personalità, "Je suis comme je suis"?
«In ogni canzone c’è una parte di me, ma nessuna mi contiene tutta quanta».
"Je mens"?
«Non la canto più. Nella vita se ho mentito è stato per educazione o per rispetto. Ma le bugie stancano. Oggi non ho più tempo per le cose futili».
E "Deshabillez-moi", spogliami?
«La canto ancora! Cioè, per un certo periodo, intorno ai sessanta, ho smesso, ma quando ho compiuto settant’anni improvvisamente l’ho trovata di nuovo spiritosa».