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 2012  ottobre 03 Mercoledì calendario

Quarto giorno da disoccupato, 26 al possibile arresto. Alessandro Sallusti mi riceve in jeans e t-shirt

Quarto giorno da disoccupato, 26 al possibile arresto. Alessandro Sallusti mi riceve in jeans e t-shirt. Finisce la partita di burraco con gli amici. Ci accomodiamo, apre una bottiglia di Sassicaia, si comincia. Partiamo da mercoledi 26, quando la Cassazione conferma la condanna a 14 mesi di carcere – per un articolo lasciato uscire quando dirigeva Libero, 5 anni fa - e lei si dimette da direttore del Giornale. «Ero nel mio ufficio. È entrato Nicola Porro e mi ha detto: direttore, abbiamo un problema. Ho capito. Ho guardato in faccia mia figlio Massimiliano, che era li con me, e ho risposto: nessun probema». Suo figlio era con lei? «Mi ha marcato a vista fin dal mattino, è stata la cosa più importante della giornata». Lo sa che la gente di lei ha un’altra idea? «Nella vita contano le emozioni e gli affetti, il resto sono stronzate. Preferisco Cuore alla Divina Commedia, che ho letto ma non mi ha dato nulla. Gli intellettuali sono il male necessario della società, aridi, stolti, sostanzialmente inutili. Ma, chissà perché, non possiamo farne a meno». Torniamo a mercoledì 26: immagino che il telefono avrà iniziato a squillare. «320 chiamate non risposte. Cinque le ho prese». Quali? «I miei amici di Como, Vincenzo e Beppe. Poi mio fratello Maurizio, una mia ex moglie, e Daniela». La Santanchè, la sua compagna: che cosa ha detto? «Era in aereoporto a Roma, urlava, ero preoccupato per lei e per l’aereoporto. Un’ora dopo era li davanti a me». E Berlusconi non l’ha chiamata? «Quella è stata l’unica telefonata che ho fatto io. Lui si occupa del Paese, sono certo che si occuperà anche di me, e questo basta». E Feltri? «Non l’ho sentito. Un po’ per la sua incapacità ad usare i telefonini, credo, un po’ perché è fatto così». Così come? «Quando un problema diventa dramma, reagisce in modo imprevedibile». Tipo? «Tipo che, per eccesso di affetto, era disposto a pagare con i suoi soldi il giudice che mi ha querelato, o a sostenere le spese di un mio esilio a Parigi». Generoso. «A volte, ma io gli voglio bene sempre». Che cosa intende? «Nel 2008, quando ero direttore di Libero e lui direttore editoriale, gli editori Angelucci gli chiesero la mia testa e Vittorio gliela diede». Racconti. «Quell’ anno eravamo passati da 80 a 130 mila copie medie, e quel genio di Gianpaolo Angelucci mi diede un premio di soli 11 mila euro. Rispedii l’assegno al mittente, dicendo che si dovevano vergognare, che erano dei marcioni. Si offesero». Tutto lì? «No: pochi giorni dopo pubblicai un articolo critico su Baccini, onorevole amico dell’editore, che chiese di cacciarmi». E Feltri? «Era un venerdì sera, io ero fuori giornale, Vittorio mi telefonò e mi disse: sei fuori. Io gli risposi: il direttore sono io, tu non puoi licenziarmi. Ma così andò, e la cosa finì con un brindisi a Dom Perignon». Sallusti licenziato: non l’aveva mai detto. «Se per questo, due mesi fa,volevano farlo anche al Giornale». Berlusconi voleva licenziarla? «Non lui». Allora chi? «Non lo so, ma posso immaginarlo. Mi raccontano di una riunione con i vertici del Pdl che chiedono al presidente la mia testa in modo perentorio. L’amministratore delegato del Giornale mi avvisa, in una piacevole colazione a base di pesce, il cibo che più detesto, anche Confalonieri mi fa capire che può essere finita. I colleghi ben informati mi dicono che tale Mario Sechi, direttore del Tempo, sponsorizzto da Cicchito e altri, va in giro a dire che entro una settimana prenderà il mio posto». E lei che cosa fa? «Chiamo Silvio Berlusconi, gli dico: Presidente, ho saputo, e sappi che io non voglio essere un problema, decidi ciò che ritieni giusto per te e per il tuo partito, non ti porterò rancore. Il risultato è che alla fine mi sono dimesso io, e per tutt’altra storia». Dimesso davvero? «Ho firmato la lettera, restituito la carta di credito aziendale. Su certe cose non si scherza». Sarà contento Sechi. «Non ho paura dei mediocri. Mi fido dei miei editori, Paolo, Alessia e Luna Berlusconi, e sono certo che, quando sarò un uomo libero, avrò una chanche di tornare a dirigere il Giornale». E se non avvenisse? «Non ho paura del carcere, figuriamoci della disoccupazione. Ne ho scampate di peggio». Peggio di questa? «So per certo che la mia testa l’hanno chiesta, nell’ordine: Gianfranco Fini, che la pose tra le condizioni per non uscire dal Pdl, Sarkozy, e più di recente Mario Monti, l’uomo che dovrebbe essere il custode del liberismo e della libertà». Quello che lei dice è molto grave. Non crede, semplicemente, di risultare antipatico? «Vede, io sono la persona più mite e disponibile, ma quello che mi chiedono – gli amici del centrodestra più che i nemici – spesso va oltre ciò che è nelle disponibilità di un direttore di un giornale che non è l’house organ del Pdl. Io non posso né voglio entrare nelle beghe del partito». Dove però la accusano di essere il braccio armato di Daniela Santanchè. «Applicano a noi le logiche che mettono in pratica tra loro: amici, parenti, quindi compari di merende. Gli scandali che stiamo vedendo dicono esattamente questo. Stimo Daniela, ha un coraggio da leone e nulla da perdere. Condivido molto, non tutto di quello che fa e dice. E sfido chiunque a provare che io abbia mescolato il Giornale alla mia vita privata. Chi lo sostiene è un mascalzone, anche se ha incarichi importanti nel Paese e nel partito». Faccia nomi. «Praticamente tutti, togliendo Berlusconi, Verdini, Crosetto e pochi altri». Ezio Mauro, Travaglio e Mentana la difendono. «Noto che giustamente non ha citato De Bortoli. È stato, ed è, una delusione. Ho passato sei anni al Corriere, al tempo mi illudevo che fosse il tempio delle libertà. Avevo già verificato che così non era, e oggi ne ho avuto conferma. Ferruccio De Bortoli non ha dedicato un editoriale alla mia situazione, non ha scritto neppure una riga. E dire che ha più querele e condanne di me: si è comportato in maniera meschina». I tre che invece l’hanno difesa, li ha ringraziati? «Sì, e mi è costato fare quelle telefonate. Da veri nemici, mi hanno dato l’onore delle armi. Glielo riconosco, ma restiamo su fronti opposti. Anche loro sono corresponsabili di questa sentenza». Che cosa centrano loro? «Hanno creato nei miei confronti un clima di odio e di denigrazione, il presupposto mediatico su cui si è inserita una magistratura in mala fede. In questo Mentana è il più bravo e il più pericoloso, il suo fingere di essere super partes è uno dei grandi bluff del giornalismo italiano. Vorrei andare in carcere solo per sputtanare questi finti paladini della libertà». Ma lei va in carcere perché ha commesso un reato. «Tutte palle. Un quotidiano non è un film, è una fotografia, e quel giorno di febbraio del 2007 l’immagine era quella descritta nell’articolo. Noi a Libero non avevamo l’Ansa, e la subdola precisazione del magistrato non siamo stati in grado di leggerla. Resta il fatto, comunque, che una ragazza di 13 anni ha abortito». Sì, ma non è stata costretta dal giudice come sosteneva quell’articolo firmato Dreyfus. Che, oggi si può dire, era lo pseudonimo di Renato Farina. Se lei andrà in carcere, sarà soprattutto perché non lo ha mai smascherato, e lui ha detto la verità troppo tardi. Lo difende? «Difendo le mie scelte: un direttore che svela chi si cela dietro uno pseudonimo, anche se lo fa per salvarsi, non avrà più la fiducia e la stima della redazione». Non ha risposto alla domanda. «Le rispondo: Farina è uno stronzo a prescindere da quello che ha scritto». Perché? «È una vita che sono perseguitato dal doppiogiochismo di Renato. Lui aveva il dovere di avvisare il suo direttore, cioè io, che collaborava con i servizi segreti – giustamente - per salvare le vite degli ostaggi in Iraq. Mi ha mentito prima e dopo. Ho pagato anche con una sospensione di due mesi dalla professione, poi annullata in appello, il fatto di farlo scrivere su Libero con quello pseudonimo, nonostante fosse stato radiato dall’ordine». È stato un errore? «Ho applicato in maniera estensiva il concetto di libertà. Mi rammarico solo che non sia stata una mia scelta convinta». In che senso? «Avevo dei dubbi, Vittorio Feltri mi mandò un messaggio al telefonino: Renato è un grande giornalista, se non sei d’accordo puoi sempre licenziarti». E lei però non lo fece. «Mi sentii ferito, in assoluto non mi pento. Mi basta che i fatti abbiano dimostrato che l’uomo Farina non lo meritava». Lo ha sentito in questi giorni? «Ho trovato delle chiamate ma, non avendo nulla da dirgli, non ho risposto. È onorevole grazie a una lettera di raccomandazione di Feltri a Berlusconi. Spero che tra pochi mesi la cosa non si ripeta». Pochi giorni fa è stato accolto da una standing ovation ad un convegno del Pdl. «Imbarazzante. Mi inorgoglisce solo sapere che la platea era fatta di gente comune, non di notabili. Di quelli non mi fido: vorrebbero vedermi morto e non hanno il coraggio di dirlo». Di qualcuno si fiderà. «Se togliamo i parenti, gli amici stretti, i miei tre vicedirettori Nicola Porro, Salvatore Tramontano e Giuseppe De Bellis, mi fido solo di Silvio Berlusconi». Allora è vero che lei è un soldatino del Cavaliere. Un nuovo Emilio Fede. «Se lo ripete la querelo. Conosco Emilio Fede, l’uomo mi fa tristezza. Non posso dire di conoscere da una vita Silvio Berlusconi e sua figlia Marina, però li ho visti dietro le quinte. È gente perbene, gli affiderei il mio portafogli, o il futuro di Massimiliano. Vuole introdurre suo figlio al Bunga Bunga? «In tanti anni, non ho mai visto o sentito niente del genere, né sono mai stato invitato dalla famiglia Berlusconi a nulla di sconveniente. Quanto meno, questo significa che il presidente sa distinguere tra uomo e uomo». E adesso, che cosa farà? «Nell’ultimo anno ho affrontato un divorzio, un infarto, una condanna al carcere e le dimissioni dal mio lavoro. Sono stanco, ma orgoglioso di quello che ho fatto. Se me ne sarà data la possibilità, continuerò a fare l’unico lavoro che amo e che, al netto degli errori, so fare: il giornalista».