Aldo Grasso, Corriere della Sera 04/10/2012, 4 ottobre 2012
LO SFRUTTAMENTO DI DON CAMILLO
La saga di Don Camillo è forse la più sfruttata dalle tv: Rai, Mediaset, Sky hanno trasmesso mille volte, fino all’usura, fino alla saturazione le vicende del parroco di un paesino della pianura emiliana (Fernandel) e del sindaco comunista Giuseppe Bottazzi, detto Peppone (Gino Cervi). L’aspetto più singolare di questo vecchio affresco, ispirato ai racconti di Giovanni Guareschi, dove si rappresenta un’Italia contadina divisa idealmente tra democristiani e comunisti, è che per molti anni ha conquistato il pubblico della tv (Rete4, martedì, ore 21,22).
Adesso dà i primi segni di crisi, forse di rigetto. Adesso l’aspetto favolistico (per esempio, il crocifisso parlante, quasi da letteratura gotica) prevale su quello realistico. Anche se ne «Il ritorno di Don Camillo», 1953, c’è il ricordo della terribile alluvione del Polesine (novembre 1951) ed è l’ultima volta che un disastro naturale viene raccontato dal cinema; di lì a poco toccherà alla tv.
Stando così le cose, diventano persino più interessanti del film le postfazioni di Tatti Sanguineti, il Walker Texas Ranger della filologia cinematografica italiana. Nei suoi racconti (veri o inventati, esattamente come il piccolo mondo antico di Guareschi) riesce ad animare brandelli di storia del cinema, a far rivivere episodi caduti nel dimenticatoio, a sottolineare come l’ideologia di sinistra che animava molta critica cinematografica non sia stata di nessun aiuto per capire i primi grandi fenomeni di cultura popolare. Si scopre anche che Guareschi odiava Fernandel e Cervi, che non andava d’accordo con il regista Duvivier, che aveva scarsa stima di Rossellini e De Sica. Su questa epopea della Bassa padana l’osservazione più acuta resta ancora quella di Indro Montanelli. Sosteneva che Don Camillo e Peppone sono la stessa persona, sono la manifestazione di un’Italia che sapeva vivere solo sotto l’ombra di un campanile, qualunque fosse la chiesa di appartenenza.
Aldo Grasso