Filippo Ceccarelli, la Repubblica 4/10/2012, 4 ottobre 2012
DAL TROLLEY AL LODEN I VESTITI DEL PROFESSORE
In principio fu il loden, capo d’abbigliamento di consolidata rispettabilità borghese dopo l’ininterrotto carnevale, e pacchiano. E poi fu il trolley, accessorio di quotidiana utilità che ciascuno si tira appresso da sé, senza servi, né altri premurosi corifei.
Venne quindi il cortese diniego dinanzi al fasto del menu istituzionale: «No, grazie, mi basta un panino»; e venne pure il modesto pranzetto tipo riso & fettina offerto ai leader dei partiti giunti a Palazzo Chigi per fare atto di buona volontà e un po’ anche di sottomissione all’incombente regime della invocatissima sobrietà.
Ministri spediti in giro per Roma con il sistema del
car sharing,
sacrifici, contenimenti e
spending review.
A raccontarla così si rischia l’apologia del «montismo », fenomeno di prolungamento di cui oltretutto il presidente del Consiglio ha negato addirittura l’esistenza durante il suo viaggio in Giappone, assicurando che alla fine del suo incarico «il sottoscritto sparirà», nientemeno. Sul proprio destino politico, in effetti, nel corso di questi dieci mesi Monti ha escluso che ci sia. L’ha fatto in varie forme e modi, ora richiamando la sua personale felicità
a liberarsi dell’incarico; ora facendosi carico dei desideri dei partiti, cui spetta di esprimere un leader, eccetera. Là dove anche in questa conclamata precarietà, dopo tanta vistosa permanenza, si poteva cogliere la ricerca di una discontinuità.
Ma intanto, allorché l’incauto Calderoli pensò di rinfacciare a Monti una certa festa a palazzo, l’ultimo dell’anno, il professore scrisse di suo pugno una risposta che del «montismo», per l’appunto, costituisce in realtà l’ideale manifesto programmatico. Tutto era lì dentro indicato, quasi a sfidare qualsiasi malizioso dubbio sulle sue intenzioni: gli ospiti, i prezzi delle vivande, il luogo dove erano state acquistate, chi aveva fatto la spesa, chi cucinato. Le ultime righe si facevano notare per il loro gelido sarcasmo: «Dato il numero relativamente elevato degli ospiti, ci possano essere stati oneri lievemente superiori per consumo di luce, acqua e gas».
La nota fa il paio con quella emanata quest’estate a proposito di una certa casa di vacanza fuori Italia, che il presidente veramente non possiede. Come s’intuisce, il dato riguardo alla proprietà appare secondario. Di prima importanza è semmai l’atteggiamento di Monti che così conferma un’impostazione di estrema chiarezza, di emergenza, la situazione è grave, anzi è gravissi-
ma, quindi occorrono misure di austerità, addirittura di «guerra», come si è spinto a dire: sotto la sua guida «l’Italia ha imboccato un percorso di guerra».
Questo costringe gli osservatori a ridurre, almeno nei suoi confronti, le valutazioni di «colore». Esaurito l’interesse sulla Bocconi, la tecnocrazia, le espressioni in inglese, i campus americani e i club d’eccellenza, con le inevitabili ricadute cospirazioniste, conta davvero poco che allo stadio il presidente è chiaramente fuori luogo; che senza giacca e cravatta sembra quasi nudo; che per suo curioso gusto ha filmato con il telefonino la carica dei carabinieri a cavallo; o che prima dell’incontro con il premier polacco, a Villa Madama, ha insospettabilmente tirato fuori dalla tasca un pettinino per ravvivarsi i capelli. E’ che i tecnici, come diceva l’altro giorno Antonio Ricci presentando la nuova serie di
Striscia la notizia,
sono «poco appetibili». Ma forse proprio per questo funzionano allo scopo. Che dopo tutto, come ha spiegato a suo tempo Carlo Freccero, è quello di dichiarare e ancora di più mettere in pratica «lo stato di eccezione», insomma fare ciò che la sfera economica reclama nella sua incontrastata
maestà, e di farlo senza tante storie. Basta buonismo, basta mammismo, basta furbismo: vedi la richiesta ai dirigenti Rai perché non venga più usata la parola «furbi» per indicare gli evasori fiscali perché, come spiegato da Monti, «non si possono trasmettere neppure in modo subliminale disvalori che distruggono la società italiana».
Apparire umano, sulla base di questo mandato pedagogico per non dire rieducativo, è poco più di un
optional.
Così come, sulla spinta della più anaffettiva indifferenza all’elemento popolare, diventa secondaria anche l’italianità. Per cui nel calderone dell’immaginario il «montismo» finisce per configurarsi come un inaudito ribaltamento, che più di ogni altro la satira aiuta a riconoscere. «L’altro giorno ho scoperto la mia ragazza a letto con Monti e mi sono rassicurato » si può leggere ad esempio nella sintomatica raccolta di Spinoza.it «
Monti ha fatto pagare l’Iva a Chuck Norris
» (Aliberti). Una figura chiamata a rovesciare le più assolute verità di questo paese: «Carosello andava a letto dopo Monti», «Monti se si gratta, vince», «La patonza fa girare Monti». Fino al culmine dell’incredulità ribaltata: «Dio crede in Monti» - ma questo in fondo suona ancora come una specie di speranza.