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 2012  ottobre 03 Mercoledì calendario

Mi dichiaro innocente». Non ha avuto dubbi Paolo Gabriele quando il suo difensore gli ha chiesto come si dichiarava per l’accusa di «furto aggravato» ai danni di Benedetto XVI

Mi dichiaro innocente». Non ha avuto dubbi Paolo Gabriele quando il suo difensore gli ha chiesto come si dichiarava per l’accusa di «furto aggravato» ai danni di Benedetto XVI. È arrivato il giorno più atteso nel processo all’ex-maggiordomo per la sottrazione di documenti riservati dalla scrivania del Papa. Il canto del «corvo» si è fatto sentire nella piccola aula del tribunale vaticano, a pochi passi dalla Basilica di San Pietro. Anche se l’imputato ha negato qualsiasi responsabilità nel furto, ha ammesso: «Mi sento colpevole per aver tradito la fiducia che aveva riposto in me il Santo Padre, che io sento di amare come un figlio». Sereno davanti ai giudici L’interrogatorio dell’ex assistente di camera di Joseph Ratzinger è durato poco più di un’ora. Di fronte al collegio dei tre giudici vaticani, Gabriele si è mostrato sereno, collaborativo e desideroso di alleggerire la sua posizione. La versione di Gabriele è semplice: ha agito sempre da solo, senza complici materiali, non ha mai ricevuto denaro in cambio dei documenti e si è mosso spinto dal desiderio di aiutare il pontefice. Ma le sue affermazioni sono state contraddittorie. Paolo Gabriele è entrato sei minuti prima delle nove del mattino nell’aula del tribunale, in Piazza Santa Marta. Abito grigio e cravatta blu. Ha salutato con un cenno i presenti e con un sorriso il suo legale, Cristiana Arru. Sul soffitto, quattro angeli vegliavano al centro della sala proprio nel punto dove, qualche metro sotto, una sedia marrone attendeva i testimoni. Ieri ne sono stati ascoltati cinque. Paolo Gabriele è stato il primo. Poi, in ordine cronologico, il gendarme Giuseppe Pesce; la consacrata «Memores Domini» e ausiliare domestica del Papa, Cristina Cernetti; il segretario privato del pontefice, Georg Gänswein; e il superiore della Gendarmeria, Costanzo Alessandrini. «L’udienza è aperta», ha detto ad alta voce il presidente Giuseppe Dalla Torre. E il «corvo» ha cominciato a parlare del rapporto con il Papa. Nel tempo, ha detto, «ho maturato la convinzione che è facile manipolare la persona che ha un potere decisionale così. A volte, quando sedevamo a tavola, il Papa faceva domande su cose di cui doveva essere informato». Da qui, ha detto Gabriele, la sua decisione di passare i documenti alla stampa. Guidato dalle domande del giudice, il maggiordomo si è spinto oltre. Ha riferito di aver cominciato la raccolta di informazioni riservate nel periodo 2010-2011. Ha dovuto però correggersi quando il promotore di giustizia (pm) Nicola Picardi ha ricordato che tra il materiale sequestrato nella sua abitazione, il 23 maggio durante le perquisizioni, c’erano anche dei documenti dell’anno 2006. Via via che parlava, Gabriele ha fatto emergere il suo modus operandi: un progressivo e costante lavoro di spionaggio durante l’orario di lavoro, compiuto utilizzando la stessa fotocopiatrice della segretaria papale. Ma senza un metodo preciso: «Mi lasciavo guidare dal mio istinto», ha detto. Una strategia che sarebbe stata applicata per mesi senza suscitare alcun sospetto, neanche in padre Georg. L’imputato ha anche riconosciuto di aver scambiato delle informazioni, soprattutto su questioni interne della Gendarmeria vaticana, almeno con due persone. Uno sarebbe un certo «dottore Mauriello». L’altro Luca Catano, membro della Fraternità di San Pietro e San Paolo, conosciuto grazie all’ex compagno di scuola Enzo Vangeli. «Guidato dall’istinto» Il promotore di giustizia ha anche citato i nomi di alcune personalità di spicco della Santa Sede: il cardinale Angelo Comastri, arciprete della Basilica di San Pietro; Paolo Sardi, che scrive i discorsi del Papa; Ingrid Stampa, l’antica governante di Joseph Ratzinger e «monsignor Cavina», che dopo l’udienza è stato identificato come Francesco Cavina, ex minutante della Segreteria di Stato e attuale vescovo di Carpi. La risposta del maggiordomo è stata secca: «Nessun’altra persona è stata coinvolta nel mio agire, né della mia famiglia nè altri». Queste quattro personalità della Curia sono state citate solo per aver avuto dei contatti occasionali con Gabriele lungo gli anni, ma sono stati esclusi da qualsiasi partecipazione nel furto di documenti. «Confermo di non avere avuto dei complici e preciso che, per suggestione, come ho detto nell’ interrogatorio del 6 giugno, non intendevo coinvolgere queste persone». Ha accettato, insomma, di essere stato «suggestionato», ma ha anche negato qualsiasi influenza di queste o di altre persone. Ma c’è un personaggio che avrebbe saputo dei movimenti del “corvo”: si tratta del suo direttore spirituale, noto solo come “padre Giovanni” e al quale l’imputato ha sostenuto di aver consegnato una seconda copia dei documenti che sono arrivati alle mani del giornalista Gianluigi Nuzzi. «Quando la situazione è degenerata – ha spiegato –, ho compreso ancora di più che avrei dovuto consegnarmi alla giustizia, ma non sapevo come. Il primo passo è stato cercare un confessore per raccontare quello che avevo fatto. Avendo pronta la seconda copia, l’ho consegnata in un momento successivo». Questa copia in più aveva un solo scopo: era una sorte di «salvacondotto», un lasciapassare da usare nel momento in cui tutta la vicenda sarebbe divenuta di dominio pubblico. Al riguardo, Gabriele ha detto che «non ero così illuso da non sapere che avrei dovuto pagare le conseguenze delle mie azioni». Oltre le giustificazioni e le contraddizioni, il «corvo» ha voluto seminare una polemica velenosa. Ha dichiarato di aver subito «pressioni psicologiche» dalla Gendarmeria vaticana e anche maltrattamenti (la prima notte nella cella di sicurezza della caserma generale della Gendarmeria si sarebbero rifiutati di dargli un cuscino per dormire). «È vero che nella prima cella nella quale è stato in isolamento non aveva lo spazio nemmeno per allargare le braccia?», ha chiesto Cristiana Arru. «Sì, è vero», ha risposto l’imputato. «È vero che durante 15-20 giorni Lei è stato con la luce accesa nella sua cella 24 ore su 24, senza che ci fosse un interruttore per spegnerla?». «Sì, è vero, e questo mi ha anche procurato un abbassamento della vista». Il comandante della Gendarmeria Vaticana, Domenico Giani, dal fondo della sala, ascoltava e mostrava tutto il suo imbarazzo. Il consigliere per la comunicazione della Segretaria di Stato, Greg Burke, prendeva appunti mentre il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, si mostrava particolarmente attento. Tutti quanti sapevano che sarebbe stata necessaria una risposta e, dopo l’udienza, è stata disposta l’immediata apertura di un fascicolo. La strategia della difesa ha puntato ieri alla delegittimazione dei metodi dei Gendarmi vaticani nella raccolta delle prove, con l’unico obiettivo di alleggerire la posizione dell’ex-maggiordomo e cercare di guadagnare un po’ di tempo in un processo che è tutto in salita per Gabriele. (Traduzione di Pablo Lombò) "Il sentimento" "Mi ritengo colpevole perché io sento di amare il Santo Padre come un figlio L’idea fissa" "Mi sono convinto che è facile manipolare la persona che ha un potere così L’esitazione" "Quando la situazione è degenerata ho capito che mi sarei dovuto consegnare alla giustizia I trafugamenti" "Nessun’altra persona è stata coinvolta nel mio agire: né miei familiari, né altri"