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 2012  ottobre 02 Martedì calendario

Il federalismo della sinistra? Ci è costato 89 miliardi in più - La scorsa settimana ha get­tato la spugna perfino Pier Luigi Bersani: la confusio­na­ria riforma del Titolo V della Co­stituzione, varata dal centrosini­stra tra il 2000 e il 2001 con appena quattro voti di maggioranza, è da buttare

Il federalismo della sinistra? Ci è costato 89 miliardi in più - La scorsa settimana ha get­tato la spugna perfino Pier Luigi Bersani: la confusio­na­ria riforma del Titolo V della Co­stituzione, varata dal centrosini­stra tra il 2000 e il 2001 con appena quattro voti di maggioranza, è da buttare. A Palazzo Chigi comanda­va Giuliano Amato, Bersani era mi­nistro dei Trasporti, e a volere for­tissimamente quella specie di fe­deralismo erano stati i dioscuri del­l’Ulivo, Walter Veltroni e France­sco Rutelli, per inseguire i voti del­la Lega Nord. Sparì ogni verifica sulle spese delle regioni per rispet­tare la loro autonomia. E vennero trasferite competenze senza leggi attuative. Quanto è costato all’Italia il fede­ralismo fuori controllo targato cen­trosinistra? Un dato balza eviden­te controllando i bilanci delle re­gioni nel 2000, cioè alla vigilia del­la riforma, e nel 2010, cioè dopo quasi un decennio di attuazione (le statistiche del 2011 a oggi non sono ancora disponibili). Secon­do un’elaborazione degli Artigia­ni di Mestre su dati Issirfa- Cnr, nel 2000 le regioni spendevano 119 mi­liardi e 398 milioni di euro; dieci an­ni dopo si è registrato un aumento di 89,02 miliardi per una spesa pari a 208,418 miliardi. Una dilatazio­ne del 74,5 per cento. Tolta la parte dovuta all’inflazione (che la Cgia mestrina stima in un 23,9 per cen­to), siamo a un balzo attorno al 50%. Dunque, le competenze asse­gnate alle regioni in quel modo pa­sticciato sono costate un maggio­re esborso di quasi 90 miliardi di euro: come due delle ultime mano­vre finanziarie che ci hanno pro­sciugato il conto in banca. Bisogne­rebbe valutare quanto ha rispar­miato lo Stato delegando agli enti locali quella serie di funzioni (in particolare sanità, trasporto, scuo­la e istruzione professionale, assi­stenza sociale). La Ragioneria del­lo Stato non fornisce elementi per questo calcolo. Ma visto l’anda­mento del debito pubblico, an­ch’esso in continua espansione, si può facilmente ipotizzare che i ri­sparmi siano stati impercettibili. Tutt’altro che trascurabili sono invece gli effetti sulle tasche degli italiani. Perché il «boom» di spese è andato di pari passo con un au­mento delle risorse a disposizione delle regioni, e quindi delle tasse. Anche in questo caso una compa­razione tra i­dati del 2010 con quel­li di inizio decennio chiarisce mol­ti interrogativi. Nel 2002 le regioni incassavano 40,7 miliardi di euro da tributi propri, in particolare da tre voci che continuano a rappre­sentare oltre il 95 per cento del get­tito proprio: Irap, addizionale Ir­pef e tasse automobilistiche. Que­ste imposte nel 2010 ammontava­no a 51 miliardi. Dieci miliardi spremuti dalle tasche di cittadini e imprese. Ma il grosso dei bilanci regiona­li, ora come prima della riforma del 2001, viene dai trasferimenti statali: denaro riscosso sul territo­rio (in particolare l’Iva), incassato a Roma e nuovamente trasferito al­le periferie. Nel 2001,con l’entrata in vigore della riforma, le regioni prevedevano di incamerare 71,3 miliardi dallo stato. Un anno dopo il versamento era già aumentato del 14 per cento (81 miliardi) per ar­rivare a 103 nel 2010, con una diffe­renza di +8,8 per cento rispetto al 2009. Lo stato, anziché tenere sot­to­controllo le spese delle ammini­strazioni locali per verificare come venivano spesi i soldi delle tasse, ha saldato senza battere ciglio i conti presentati. Più spendevano, più le regioni ottenevano con i rim­borsi. Il federalismo fiscale avreb­be colpito questa logica perversa. Ma i tecnici di Mario Monti hanno messo in naftalina questa riforma del governo Berlusconi che avreb­be ripulito i bilanci. Il 2010 è stato il primo anno in cui a Roma hanno ridotto gli stan­ziamenti per le regioni. È dunque interessante controllare dove gli amministratori locali hanno ta­gliato. Secondo i dati Issirfa-Cnr la sanità continua a prendersi due terzi dei bilanci regionali (111 mi­liardi complessivi) mentre sono calate le spese per industria, turi­smo, istruzione, assistenza, tra­sporti. Sono invece aumentate l’agricoltura e - guarda guarda ­l’amministrazione generale. La quale comprende il personale (tranne quello sanitario e scolasti­co) e le spese di funzionamento, cioè il costo della politica. Questa voce vale complessivamente 12 miliardi di euro, come i trasporti lo­cali. Accanto alla vertiginosa espan­sione delle spese, la riforma del Ti­tolo V ha ingorgato la Corte Costi­tuzionale di ricorsi perché il legisla­tore non aveva ripartito chiara­mente molte competenze tra Sta­to e Regioni. Dall’entrata in vigore delle nuove norme, il contenzioso costituzionale è pressoché rad­doppiato. Nei primi anni c’era da attendersi un certo assestamento. Ma con il tempo i litigi tra centro e periferie sono aumentati fino a toc­care il massimo nel 2010 con 154 controversie: quasi metà delle pro­nunce della Consulta.