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 2012  ottobre 01 Lunedì calendario

«E se portassimo il David al Louvre?» - Firenze come l’Italia intera:incapace di abbandona­re l’ostinazione con cui cerca di conservare, in modo rigido e chiuso, il proprio passato; e incapace di supe­rare il degrado ( documentato) della città aprendo ai privati

«E se portassimo il David al Louvre?» - Firenze come l’Italia intera:incapace di abbandona­re l’ostinazione con cui cerca di conservare, in modo rigido e chiuso, il proprio passato; e incapace di supe­rare il degrado ( documentato) della città aprendo ai privati. È questa la tesi del nuovo pamphlet di Luca Doninelli, Salviamo Firenze (Bompiani, pagg. 124, euro 12; in libreria dal 3 ottobre) di cui pubblichia­mo qui uno stralcio. L’autore individua alcune gran­di colpe di una città che col vedutismo da «camera con vista» improntato al gusto anglosassone e con la sua cronica povertà progettuale ha tradito la sua ra­dice profonda: quel Rinascimento rivoluzionario che Filippo Brunelleschi, pensando non ai potenti ma ai poveri, fece nascere nel 1419 nella Piazza SS. Annunziata sotto le logge dello Spedale degli Inno­centi. Per uscire dalla crisi, Doninelli propone una serie di (serissime) provocazioni: fare di Palazzo Strozzi il tempio della Apple; trasferire il David al Louvre;trasformare con l’aiuto di qualche archistar quel «quadrato chiuso a ogni bellezza» che è Piazza della Repubblica; affidare a un giovane architetto il progetto della facciata di San Lorenzo. Solo così Fi­renze e l’Italia intera potranno risollevarsi dall’iner­zia culturale. *** Il David. È la scultura più famosa di tutti i tempi. L’uomo rappresentato nella scultura è l’uomo più bello di tutti i tempi. La forza dello sguardo che il giovane Michelangelo seppe impri­mere nel marmo è uno dei miracoli più sconcertanti della storia dell’arte:il gigan­te Golia è lì, dentro quelle pupille di pietra: come Foreman a Kinshasa nel 1974 non è ancora caduto ma il Destino ha già fatto co­noscere il proprio verdetto, e David ne ha paura, perché sa che, davanti al Destino, cioè a Dio, vincere e perdere sono la stessa cosa. I suoi glutei perfetti fanno compren­dere a ogni uomo, anche al più alieno da questo genere di pensieri, che l’omoses­sualità è presente e ben radicata, con il suo mistero escatologico, in ciascuno di noi. Le sue mani sono una scultura nella scultu­ra, opera d’arte autonoma e binaria,confu­tazione definitiva di ogni determinismo e darwinismo, figlie della catena evolutiva e insieme assassine della stessa, istitutrici della specie homo , e del mistero che si por­ta appresso. La sua grazia semidivina, fi­glia degli scorticamenti illegali dei cadave­ri in qualche anfratto di Santo Spirito, ci ri­corda – se Dostoevskij, Bacon e tanti altri non fossero sufficienti –di quanta bellezza siamo debitori alla morte, alla violenza e al­la decomposizione, e quanto Destino (quanto Dio...) ci mettano a disposizione questi fatti spiacevoli. Qui, però, intervie­ne una specie di slogatura. Se, come fu detto, tutta la filosofia è un commento a Platone, allora tutto il Rinasci­mento è un commento al Brunelleschi e al­la sua Cupola. Anche il David nasce da que­sto ambito, però al tempo stesso indica un punto di fuga: Michelangelo non è un rina­scimentale, è Michelangelo e basta (così come Caravaggio, per intenderci, non è un tardo manierista). Firenze non possiede la chiave di lettura adeguata per capire Mi­chelangelo, David incluso. La chiave si tro­va a Roma, dove si svolse la parte più im­portante della storia di Michelangelo, op­pure si trova disseminata nel mondo, che ha adottato alcune opere di Michelangelo – specialmente David e Adamo – a icone universali, simboli di tutto ciò che l’inge­gno umano ha prodotto e produrrà, dagli abiti di Armani al computer più sofistica­to, dalla teoria delle stringhe all’ultimo mo­dello Ferrari, per arrivare infine alla con­quista del Punto Medio, vero Eden moder­no e postmoderno, il cui possesso significa il potere assoluto sul mondo: la Fiat Pan­da, la caffettiera Bialetti, lo shampoo Gar­nier, i surgelati Findus. Di questa Medietà Assoluta, che fa del­l’opera d’arte qualcosa di più che un’ope­ra d’arte (Andy Warhol ci insegnò che tut­to può essere opera d’arte, Michelangelo ci insegna che l’opera d’arte può essere tut­to), ci è testimone la fila, pressoché quoti­diana, che staziona, lunghissima, davanti all’ingresso della Galleria dell’Accade­mia, dove come tutti sanno è custodito il David. Lo spettacolo di questa folla incolta che, non appena pagato il biglietto, si preci­pita verso il David ignorando – ne abbia­mo già parlato – alcune tra le opere d’arte più importanti di ogni tempo dice a chiare lettere che tra il David e i Prigioni (che di per sé non sono da meno del David)c’è un abisso simbolico. Da tutte queste considerazioni nasce la prima delle mie proposte folli: quella di tra­sferire il David a Parigi. Le ragioni sono tan­te. La prima è che Parigi è la Teca, lo show­room della storia. Il David sta un passo ol­tre Andy Warhol, e rappresenta quel ritor­no all’Europa che appartiene all’arte in quanto tale, e che nulla ha a che vedere con il dominio americano, o cinese che sia. Marc Fumaroli ha illustrato questo mo­vimento profondo nel suo magistrale Pa­ris­ New York et retour . La seconda ragione è che Firenze non può sopportare un im­patto come quello a cui il David la obbliga. La presenza del David è fonte di degrado urbano: carte e lattine per terra, scritte sui muri e ogni specie di maleducazione. Il problema non è quello di evitare tutto que­sto con una ricollocazione più avveduta del capolavoro, ma di fare i conti con la na­tura del capolavoro, che è una natura diver­sa rispetto alle altre opere custodite nei musei e nelle gallerie fiorentine. La terza ragione è che il David è a tal punto il manife­sto pubblicitario di Firenze da non poter stare a Firenze. Il Louvre è il luogo adatto, Parigi è la città adatta, perché Parigi è l’in­troduzione, l’ avant­propos di tutta la civil­tà europea. La quarta ragione è che il trasfe­rimento del David sarebbe l’evento artisti­co e culturale del secolo, che tutto il mon­do si girerebbe da questa parte, che New York perderebbe ogni centralità culturale, e che Firenze ne ricaverebbe un enorme beneficio: non si tratterebbe affatto di esi­liare una grande opera d’arte, ma solo di portare nel mondo, con un evento dalla forza dirompente (immaginiamo il suo im­patto mediatico) il «made in Florence». Palazzo Strozzi. È oggi una tranquilla sede di mostre di discreto livello medio, ta­lune di ottimo livello. [...] Ma quella di Pa­lazzo Strozzi resta una Firenze, al massi­mo, da quarto posto ai campionati italiani. Davanti a Milano, ma dietro Roma e Napo­li, e quasi di certo anche a Torino. Creare centri espositivi per uniformarsi al nuovo standard nazionale è senz’altro una bella iniziativa, forse Firenze potrà competere con Torino e Napoli, il secondo posto po­trebbe non essere più una chimera, ma questo sarà tutto. Certo, un nuovo spazio a Firenze non rischierebbe, come altrove, di ridursi a una scatola vuota, quando non a un pretesto per entrare nella danza delle direzioni artistiche e delle sovrintenden­ze. Ma questo non esimerebbe la città da una critica fondamentale: quella di essersi (di nuovo) accodata, di non aver tentato vie nuove. Per non accodarsi, Firenze de­ve – ancora una volta – attentare ai propri simboli. Propongo perciò di trasformare Palazzo Strozzi in un grande Museo Ap­ple. La casa di Cupertino rappresenta in tutto il mondo il lato umanistico della rivo­luzione informatica. [...] Il modello-Jobs che si è imposto nel mondo è quello di un mondo, quello informatico, che ruota in­torno all’Uomo. Forse anche gli altri han­no lavorato in questa direzione, ma è un fatto che ad Apple sia riuscito di imporre nel mondo questa idea come propria. Può essere soltanto la vittoria di una strategia comunicativa migliore –così almeno dice qualcuno. Invece non è così. La strategia comunicativa risiede infatti in qualcosa di fondamentale: la bellezza dei prodotti. I prodotti Apple sono più belli degli altri. [...] Apple è quanto di più simile al Rinascimen­to­esista nel cosiddetto mondo postmoder­no. E ne possiede la stessa forza dirompen­te. L’idea che lega questi due fenomeni ap­parentemente lontani intere galassie è quella secondo cui solo la bellezza, con la sua persuasività immediata, può stabilire un contatto tra l’innovazione e la vita di ogni giorno. [...] Per questo immagino Palazzo Strozzi co­me la sede naturale, predestinata di un grande museo in cui arte e tecnologia, tra­dizione e innovazione, studio e artigiana­to ( anche la tecnologia è perlopiù una que­stione di bottega artigiana) dimostrino, co­me accadde nel Rinascimento, la loro buo­na disposizione a camminare insieme. Vo­glio precisare che qui stiamo parlando di un vero e proprio passaggio di proprietà. È questo il punto veramente rivoluzionario: Palazzo Strozzi non deve essere affittato o prestato ad Apple, ma venduto. [...] È tem­po di metterci il cuore in pace: Firenze non si salverà se non grazie all’intervento dei soggetti privati.