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 2012  ottobre 01 Lunedì calendario

Tabacci sul ring della sinistra dopo una vita in seconda fila - Inseguendo il successo che meritava e che gli è sempre sfuggito, l’inquieto Bruno Ta­bacci ha deciso di farsi male da sé

Tabacci sul ring della sinistra dopo una vita in seconda fila - Inseguendo il successo che meritava e che gli è sempre sfuggito, l’inquieto Bruno Ta­bacci ha deciso di farsi male da sé. Si appresta, infatti, a un funambo­lico salto carpiato per il quale non ha più l’età. A sessantasei anni, do­po una vita democristian-centri­sta, con lievi sconfinamenti a de­stra, vuole ora presentarsi alle pri­marie della sinistra contro Bersa­ni e Renzi e Vendola. È l’estremo tentativo di farsi universalmente conoscere, poiché soffre da anni per una notorietà limitata a ristret­ti circoli di estimatori - tra i quali chi scrive - , salottini televisivi, in­calliti lettori di giornali capaci di reperire a pagina trentuno il trafi­letto che lo riguarda. Com’è a tutti noto - lo dico sen­za ironia - Tabacci milita nell’Api che, come ognun sa, è il partito di Rutel­li. Si tratta di una formazio­ne­ politica cen­trista valutata sullo zero virgo­la, radicata so­prattutto nelle oasi lacustri della Calabria. È chiaro che con una simile (non) forza alle spalle, Bruno deve arrangiar­si da sé se non vuole solo scal­dare il banco di Montecitorio. E non è il tipo. Perciò, già un anno fa ac­cettò l’invito del neo sinda­co rifondazio­nista di Mila­no, Giuliano Pi­sapia, di fargli da assessore al Bi­lancio. Così, di colpo, Bruno si tro­vò nella gerla un’altra poltrona ol­tre a quella di deputato che la leg­ge gli consente comunque di man­tenere. E se lo dice la legge, perché contraddirla? Il trasloco dell’atti­vità a Milano - da sempre sua città d’elezione- gli dette una visibilità moltiplicata a parziale risarcimento dalle frustrazioni che, co­me vedremo, accumulava da an­ni. L’accordo con Pisapia non era invece da considerarsi un passag­gio politico dal centro alla sini­stra. Tabacci entrava nella giunta ad personam , come tecnico, orgo­gliosamente dc e centrista. «Se mi vuoi così, bene.Se no, ti saluto e so­no», questo il patto con Pisapia. Superfluo aggiungere che, sia pure con i toni scorbutici che gli sono propri, l’assessore al Bilan­cio sta lasciando un’impronta da par suo. Basti dire che, con l’ispira­zione visionaria del demiurgo, vuole realizzare una megalopoli che accorpi, nei servizi essenziali, Milano, Torino e Genova: pianu­ra, monti e mare, quasi una repub­blica a sé. Tabacci si batte, infatti, per unificare le aziende energeti­che e di trasporto collettivo dei tre capoluoghi con l’obiettivo di tra­sformare entità, che separata­mente sono bruscolini, in giganti del settore. Ovviamente queste ve­dute avveniristiche sono poco più che sopportate dalla giunta di sini­stra milanese e guardate con fiero sospetto dal sindaco ex comuni­sta di Torino, Piero Fassino, e da quello vendoliano di Genova, Marco Doria. È l’abisso che sepa­ra il nostro Bruno dalla morta go­ra del personale politico corrente, soprattutto se marxisteggiante. Il fluire nella sua mente di intui­zioni grandiose, ha rafforzato in Tabacci la convinzione che il pro­prio sottoutilizzo sia una perdita per la Nazione intera. È uno spre­co - pensa - barcamenarsi tra uno scranno di Montecitorio e un as­sessorato milanese quando ha idee a iosa per dare uno scrollone a questa Italia piegata in due co­me un artritico all’ultimo stadio. Ecco perché vuole misurarsi nella vasta platea delle primarie, le qua­li, comunque vada, daranno ai suoi destini una dimensione pe­ninsulare. Questa decisione ha come pri­ma conseguenza il formale sposta­mento a sinistra suo, di Rutelli e dell’Api. La seconda è che Tabac­ci, entrando nell’orbita Pd, cambia pelle. Era stato dc o centrista, per un periodo alleato con la de­stra, mai però si era mescolato con i post comunisti. La terza è che, partecipando alla lizza, ri­schia un bagno con i fiocchi. A pet­to di Bersani, che ha dietro il parti­to, di Renzi, che passa per la Maga Magò, e di quel santone di Vendo­la, l’asburgico Bruno - occhi di ghiaccio e gesti rigidi - sembra il pollo da spennare. Bruno Tabacci è un prodotto di nicchia. È sulla breccia da trent’anni, è serio, preparato e di gradevole aspetto, ma la sua popo­la­rità è rimasta ai livelli del chinot­to rispetto alla Coca Cola. A nulla valse che Floris si sia dannato a in­vitarlo a Ballarò una settimana sì e l’altra pure per attaccare il Cav. Non ha sfondato. Il pubblico lo ha preso per una comparsa anti­berlusconia­na, ignorando perfino che fos­se un politico su cui riversare eventualmen­te preferenze. La prova è che quando Bruno si presentò nel 2006 alle ammi­nis­trative di Mi­lano, il suo no­me disse così poco a tanti che racimolò 1.235 voti, no­nostante fosse stato addirittu­ra Governato­re della Lom­bardia negli an­ni Ottanta. E qui è d’uo­po qualche rag­guaglio sulla sua vita. Vagì a Quistello, in quel di Man­tova, si laureò in Economia a Par­ma e tra le due date si iscrisse alla Dc. Scelse la corrente di sinistra, prima accanto a Giovanni Marco­ra, poi a Giovanni Goria. Di en­trambi diresse l’ufficio studi nei ministeri economici di cui erano titolari. Entrò poi nelle grazie di Ci­riaco De Mita che lo volle Governa­tore lombardo a soli quarantuno anni, nel 1987. Dovette però la­sciare poco dopo, vittima delle leg­gendarie baruffe tra De Mita e Cra­xi. A chiederne la testa fu infatti Bettino, cui Tabacci non perdonò mai lo sgarbo. E poiché il Cav era all’epoca amico di Craxi, l’antipa­tia per Bettino si estese anche a lui. E qui arriviamo al nocciolo dei suoi problemi. Bruno detesta il Cav con tutta l’anima. Non lo sop­porta. Lo considera un usurpato­re che doveva tenersi lontano dal­la politica, arte sopraffina per menti elette, inadatta ai bauscia . Non è certo - data la levatura ta­bacciana - banale invidia per il na­babbo o astio sinistrorso per l’azienda del Biscione. Tant’è che ha ottimi rapporti con Fedele Con­falonieri, alter ego del Cav. È que­stione di pelle. Il Berlusca gli fa ve­nire l’orticaria. Meglio: lo fa usci­re di senno. Un po’ ha cercato di conviverci perché grazie a lui, che aveva salvato Casini, era potuto ri­sorgere a sua volta. Accusato falsa­mente di tangenti negli anni No­vanta, Tabacci abbandonò a lun­go la politica fino alla piena assolu­zione. Quando ci tornò, trovò ri­cetto nell’Udc casiniana e nel 2001 fu eletto deputato con il cen­trodestra. Fu addirittura presiden­te di commissione per l’intero quinquennio berlusconiano. Il di­sgusto però prevalse. Un giorno ­intorno al 2007 - gettò la masche­ra e iniziò a dare il tormentone a Pierferdy: «Molliamo quest’indi­viduo. Non degradiamoci». E se non era Casini, era Cesa. Poiché i due tergiversavano, uscì una pri­ma volta dall’Udc, poi ci rientrò, poi uscì di nuovo. Passò con Rutel­li, divenne una macchietta anti­berlusconiana e, pur di non pro­nunciare il nome di Berlusconi, cominciò a chiamarlo Arcore. «Io con Arcore non intendo avere nul­la a che fare», ripeteva. Che è come se noi chiamassi­mo Tabacci, Quistello, dal borgo natìo. Insomma, sprecò il suo tem­po a dire no a tutto per accorgersi adesso, in età di pensione, che null’altro gli resta che sfidare Ber­sani per consolarsi, con un raggio di luce riflessa, di essersi segato le gambe da solo.