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 2012  ottobre 03 Mercoledì calendario

“GLI UNDICI EVENTI INATTESI CHE POSSONO CAMBIARE TUTTO”

Se 11 vi sembrano poche, ecco altrettante catastrofi che potrebbero farci molto male: il blocco prolungato di Internet, l’interruzione della distribuzione mondiale del cibo, il blackout di tutti i computer a causa di un impulso elettromagnetico, la fine traumatica della globalizzazione, la distruzione della Terra da parte di uno «strangelet» (una particella «esotica» sfuggita a un test azzardato), un conflitto nucleare, la fine improvvisa del petrolio, una pandemia incontrollabile, il crack della rete energetica e dell’acqua potabile, la rivolta di robot intelligenti e, infine, il crollo dei mercati internazionali.

A raccontarle con il piglio del narratore è un matematico americano, John Casti, studioso della complessità. Nel saggio «Eventi X», edito da Il Saggiatore, insinua il tarlo del dubbio: la nostra sofisticata e scintillante civiltà - spiega - è meno solida di quanto pensiamo (nonostante i ripetuti Sos, dall’inquinamento agli scossoni finanziari). E per farci meditare usa una metafora: come il più grande castello di carte mai realizzato, opera di Bryan Berg con 4 mila mazzi, per una lunghezza di 9 metri e un’altezza di 3, la nostra quotidianità è diventata una labirintica meraviglia dalla stabilità precaria. Basta l’equivalente di un topolino o di un refolo di vento e deflagrerà un mostruoso effetto a catena. Professore, i disastri che descrive fanno sembrare «soft» la crisi attuale, eppure il messaggio del libro è tutt’altro che pessimistico: può spiegare? «Ho chiamato gli 11 eventi “Eventi X”, perché sono rari e sorprendenti. Possono accadere, anche se finora non si sono mai verificati, se non in forme limitate, e ciascuno racchiude implicazioni immense. E’ quindi importante rendere tutti consapevoli del tipo di assicurazione da prendere, sia come individui che come società. Solo così si potranno limitare i danni, anche se tendiamo, per natura, a non pensare mai ai pericoli che ci circondano. Ecco perché mi considero un “ottimista dell’Apocalisse”». Ma di questi 11 qual è l’evento più probabile? «Lo spettro è ampio, con tempi di svolgimento differenti: si va dai millisecondi di un blackout tecnologico agli anni di una deflazione internazionale. Credo, però, che l’evento più pericoloso in termini di impatto e di probabilità sia un’esplosione nucleare. Penso a una matrice terroristica, più che militare. La tragedia potrebbe verificarsi in una grande città, New York, Parigi o Roma, con devastazioni psicologiche ancora maggiori di quelle materiali». In ogni caso, secondo lei, la scintilla degli «Eventi X» è sempre la stessa: la complessità crescente dei sistemi che ci governano, fino al non ritorno. L’eccesso di elementi, dati ed effetti può implodere, al di là delle capacità di gestione. Com’è possibile che siamo a un passo da così tanti disastri? «Ho stilato la lista degli 11 eventi per arrivare alla questione fondamentale: come si identifica e si misura il rischio, quando si opera in un ambiente pressoché privo di dati? Se un problema non si è mai verificato, come è nel caso degli “Eventi X”, i mezzi della statistica standard non funzionano, e allora che si fa?».

E qual è la risposta? «Parto da ciò che chiamo il “complexity mismatch”, la discrepanza della complessità: scoppia quando due sistemi che interagiscono raggiungono differenti livelli di sofisticazione e il gap tra l’uno e l’altro supera il livello di sostenibilità. E’ come quando si tende un elastico e la tensione delle braccia lo avvicina al punto di rottura. Se non si riduce volontariamente la forza in azione, si finisce nei pasticci. Ecco perché è necessario operare un “downsizing”, un processo di riduzione della complessità. In caso contrario si assiste al “crash”». Quanto siamo vicini a una deflagrazione? «Ci sono molti dèmoni là fuori, creati dai nostri stessi sistemi, pronti a saltarci addosso. E diventano sempre più aggressivi e numerosi. La mia lista, in effetti, supera gli 11 eventi. Ma consideriamo più da vicino le probabilità».

Le spieghi. «Se c’è una chance su 100 perché un evento singolo possa accadere nei prossimi due anni, non è molto. Le probabilità restano basse. Ma cambiamo la domanda: qual è la chance che “qualcosa” della lista succeda? A questo punto tutto cambia e le probabilità salgono. Fino al 60%». Lei sostiene che la soluzione per evitare le catastrofi incombenti stia nella triade «adattamento-resilienza-ridondanza»: che significa? «Che dobbiamo riconfigurarci, ricalibrando i sistemi che ci circondano. Significa scoprire nuove opportunità e nuovi livelli di libertà. E anche sfruttare nicchie che prima non esistevano e inventare prodotti per una domanda inedita. E’ qui che entra in gioco la resilienza: non basta assorbire gli shock, si devono cambiare i modi di operare. E di conseguenza per sopravvivere è necessaria la ridondanza, il metodo per far funzionare il tutto di fronte a crisi improvvise. Lo sanno bene gli informatici».
Siamo quindi condannati al downsizing»?
«Sì. In caso contrario la natura interverrà e lo farà per noi, in modo non amichevole».
Lei cita un esempio di successo, almeno relativo.
«Mi è stato suggerito dagli studi dell’archeologo Joseph Tainter: quando una società ve affrontare un problema inatteso - è la sua teoria - aggiunge un livello di burocrazia che non c’era prima, fino a quando tutte le risorse vengono consumate per mantenere l’esistente e si esauriscono quelle per il problema successivo. La complessità aumenta finché il sovraccarico provoca il crollo. Solo una società - è la sua conclusione - si è consapevolmente “auto-ridotta”, garantendosi una lunga sopravvivenza: è l’impero bizantino».
Lei si dichiara ottimista, anche se pochi le crederanno.
«L’aspetto positivo è che il “downsizing” se doloroso sul breve termine, su tempi più lunghi crea spazi imprevisti. Come gli incendi controllati nelle foreste. Vi ricordate che Schumpeter parlava della “distruzione creativa”?».