Raffaella De Santis, la Repubblica 3/10/2012, 3 ottobre 2012
CHE COS’È IL DIRITTO DI CRONACA “LA MIA USCITA NON È STATA APPROPRIATA MA SI TRATTA DI GIUDIZI NON DI OFFESE”
Dopo l’intervista di Gianrico Carofiglio nella quale lo scrittore ha spiegato i motivi della sua richiesta di risarcimento danni a Vincenzo Ostuni, l’editor di Ponte alle Grazie ha deciso di rispondere e dare la sua versione dei fatti. L’autore del
Silenzio dell’Ondaaveva
concluso così: «Dica pure dove e quando vuole che i miei libri non gli piacciono, ma ammetta di aver sbagliato a trascendere sul piano personale».
Al centro della questione, nata dopo il Premio Strega, c’è il sottile discrimine tra il diritto di critica e l’insulto. D’altra parte, altro elemento non trascurabile, tutto è iniziato con frasi postate da Ostuni
su Facebook.
Perché ha scritto i suoi giudizi su Carofiglio sulla sua pagina Facebook? Ritiene che sia quello il luogo deputato della critica letteraria?
«Su Facebook ci si esprime per frammenti. Quando recensisco, lo faccio altrove, in rete o su carta.
In questo caso, si potrebbe parlare di “appunti per una stroncatura”, per altro destinati ai miei amici sulla mia pagina privata. I termini sono stati considerati offensivi non perché usati fuori da un contesto criticoletterario, ma per la loro semplice menzione. Termini simili o più pesanti ricorrono in recensioni e saggi, e per questo l’azione di Carofiglio – che, chi glielo nega, come cittadino ha diritto di intraprendere – è parsa pericolosa a tanti: con quei criteri, un atto giudiziario potrebbe raggiungere già domani ogni critico o giornalista italiano.
Nonostante quanto dichiara Carofiglio, quest’azione non ha precedenti paragonabili, e reca una richiesta di 50 mila euro.
Poiché, come credo e come dice, il senatore Pd “non vuole i soldi di nessuno” – a lui, bestseller internazionale, 50 mila euro
in più o in meno di certo non cambiano molto: ma a me sì – mi domando perché abbia formulato quella richiesta».
Lei è un editor, e nel caso specifico era editor di un libro in gara allo Strega (quello di Trevi,
Qualcosa di scritto).
Non pensa che il suo ruolo richiedesse maggiore
fair play?
Le faccio la
stessa domanda che ho fatto a Carofiglio: non crede di aver esagerato?
«Guardi, non rivendico l’opportunità della mia uscita. Ma non si può negare che io abbia
tenuto il massimo del
fair play
per l’intera competizione: solo a cose fatte, dopo un premio perso per un soffio, con una rimonta di Piperno durante la lettura dei telegrammi, mi sono lasciato scappare uno status privato di Facebook. Di quel che ho scritto rivendico tuttavia la piena legittimità, oltre che la totale sincerità, e sono pronto ad argomentarne le ragioni di verità. Il
fair play
degli editor è una buona norma, alla quale mi attengo, ma non è né l’unica né la somma fra le virtù (né tantomeno la sua violazione è una buona ragione per essere citati in giudizio). Ad esempio, non sono disposto a sottoscrivere un’etica che pretenda di fare del mio mestiere la manovalanza muta dell’espulsione della ricerca letteraria dal mercato editoriale: sarebbe una grave ipocrisia intellettuale travestita da
bon ton.
Per mia fortuna,
lavoro in un contesto che a
questi temi è sensibile».
Non rintraccia un conflitto di interessi tra il suo lavoro nella grande editoria e le sue critiche ai prodotti commerciali dell’industria culturale?
«No, nel modo più assoluto. Non critico le doti specifiche dei prodotti commerciali, che non solo rivestono un’importanza economica fondamentale ma possono avvicinare alla lettura un pubblico ampio. Assieme agli altri TQ, critichiamo invece il progressivo smantellamento di ogni dispositivo condiviso di segnalazione e promozione della qualità letteraria. Libri commerciali e letterari si trovano fianco a fianco nelle stesse collane e vetrine; vengono recensiti sulle stesse pagine con gli stessi aggettivi; vengono candidati assieme a premi che si definiscono letterari; la retorica
editoriale – bandelle, fascette, grafiche ecc. – mira a cancellare le differenze; al Parlamento non c’è più Sanguineti ma Bondi. Eppure, proprio la mia vicenda mi lascia una speranza: quei milioni e milioni di italiani che hanno letto Dostoevskij e Camus, Gadda e DeLillo, stanno smettendo di cascarci? Molta gente mi scrive: finalmente qualcuno che, magari con dubbia eleganza, ha avuto il coraggio di rimettere i valori in ordine. Con i TQ non ci siamo limitati alla critica, ma abbiamo avanzato decine di proposte. Qui vorrei ricordarne una venuta originalmente dall’editore Crocetti: l’istituzione di un Premio Letterario Nazionale, con commissioni ristrette di chiara fama, a voto palese e frequente rotazione, che siano protette dalle pressioni editoriali e premino ogni anno
un piccolo numero di opere di grande qualità, fornendo anche incentivi alla loro distribuzione e fruizione pubblica».
La storia potrebbe finire qui se lei si scusasse pubblicamente
per i modi in cui si è espresso. È disposto a raccogliere l’invito? “Scribacchino mestierante” è un’espressione dispregiativa. Forse avrebbe dovuto articolare la sua critica in altro modo…
«Non ho alcuna vocazione all’alzo zero, né difficoltà ad am-
mettere gli errori: non credo che la mia uscita sia stata appropriata, soprattutto perché legata a un premio appena perso. Umanamente, mi duole che Carofiglio si sia sentito offeso: anche per lui la sconfitta allo Strega sarà forse stata cocente e il mio commento non gli avrà fatto piacere. Mi dispiace, come mi capita quando esprimo un’opinione negativa su un libro o ancor più quando rifiuto un manoscritto. Eppure, questo genere di dolore – recato, subìto – fa parte del tradizionale funzionamento del sistema letterario: un funzionamento che va rispettato o anche trasformato, ma al di fuori delle aule giudiziarie.
Il senatore mi chiede di “ammettere di aver sbagliato a trascendere sul piano personale”. Sono sincero: non credo sia accaduto questo. Quei termini non rappresentano un’offesa alla persona, bensì un giudizio, certamente severo, e tuttavia rivolto alla sua
attività di scrittore:
rientrano pienamente nel dominio della libertà di espressione. Il primo significa “scrittore di scarso valore”; e con l’apposizione del secondo, d’accordo con il vocabolario, ho inteso riconoscergli qualche abilità tecnica. Se venissi condannato per questo, d’ora in avanti, in Italia diventerebbe più difficile esercitare liberamente il diritto di critica».