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 2012  ottobre 03 Mercoledì calendario

LA VITA DEGLI ALTRI

[“Curare i bambini, la medicina del bene quotidiano”]–
MILANO
Livio aveva appena quattro anni quando i suoi reni si ammalarono. Tumore di Wilms, la neoplasia renale più frequente dell’età infantile. Sopravvisse perché accadeva che qualche bambino ce la facesse anche allora. Oggi Livio di anni ne ha quarantatré. Alcuni giorni fa ha telefonato alla dottoressa che lo curò per invitarla all’inaugurazione di una sua mostra fotografica. Quella sera stessa le ha inviato una mail: «Sentirla, vederla e abbracciarla mi cambia sempre la giornata. Oggi c’è il sole in tutti i sensi». Franca Fossati Bellani ha occhi celesti incredibilmente sorridenti, come se avessero avuto la fortuna di guardare sempre un mondo senza dolore. Al contrario, i suoi occhi sono la prova di come sia proprio il dolore a legare gli esseri umani più di tutto. Le domando come sia possibile che in loro non si rifletta l’abisso delle sofferenze cui hanno assistito. «Parlando con lei – dice – sono riemerse tumultuose storie di tanti incontri e di tante fatiche che pensavo d’aver riposto ordinatamente nella madia dei ricordi. La voce di Livio da sola mi fa tornare con gioia alla realtà del presente ». Il mestiere del medico, aggiunge, è coltivare la vita. «Non facciamo altro che seguirla e rincorrerla fino al suo ultimo respiro, a volte sfioriamo la presunzione di avvicinarci al
divino».
Franca Fossati Bellani è un’oncologa pediatrica che ha contribuito a scrivere la storia di questa disciplina, ha attraversato la terra di mezzo della medicina, quando l’intuito era superiore nei risultati alla tecnologia e la pietà l’anticamera dello straordinario sviluppo dei farmaci registrato nel corso dell’ultimo ventennio. Ha lavorato all’Istituto tumori di Milano dal 2 gennaio 1967 al 31 dicembre 2008. Ha visto soffrire, combattere, morire o salvarsi gli esseri umani che siamo abituati a considerare il simbolo più forte della vita, i bambini. Ha continuato a confidare nell’amore, nell’amore indistinto per il prossimo nostro, anche quando avrebbe voluto maledire la propria capacità di sentire e compatire e di voler bene in un luogo dove il bene viene annientato da qualcosa che fa precipitare persino la fede dei laici.
Dottoressa, quanti pazienti ha curato nella sua lunga storia professionale?
«Cinquemila e cinquecento. Ne ho perduti più di duemila. All’inizio morivano tutti, lasciavamo andare le persone. Erano gli incurabili. Una parola che non si usa più».
Come è stato l’inizio?
«Una minuscola stanza ricavata nel settore femminile del reparto di oncologia medica. I ricoveri erano pochissimi, uno solo durante il mio primo anno all’ospedale. Si chiamava Maria, una bambina greca con una leucemia in ricaduta. I tumori dell’infanzia erano poco studiati negli ambienti pediatrici e generalmente affidati alla sala operatoria e poi abbandonati al loro destino evolutivo».
Lei si adeguò alla prassi?
«Non potevo fare altrimenti. Vede, allora non avevo le idee chiare. Arrivavo dal liceo Parini e dal pianoforte. Tentai di seguire la musica, sa?, ma a un certo punto l’elaborazione dell’inconscio fece dire a me stessa: desisti, non ne hai le possibilità. E su un treno che mi riportava da Roma a
Milano, viaggio scaramantico e dono del mio adorato papà Felice alla vigilia dell’esame di maturità, decisi che sarei diventata medico. Era il 1960».
Un moto d’amore?
«No, una folgorazione. Non c’era nessun sentimento dentro, se non la curiosità di occuparsi della realtà dell’uomo. Essere medico significa soprattutto curare se stesso. Credo che pochi di noi comincino questo lavoro considerandolo una missione. Non è molto diverso dall’avvertire una vocazione per l’ingegneria nucleare».
Non ha subìto, dunque, una sorta di imprinting?
«Non immediatamente. Arrivai all’Istituto di via Venezian con una borsa di studio e con l’intenzione di restarci un anno, ma mi innamorai intellettualmente del professor Gianni Bonadonna. Fu lui che mi convinse a occuparmi dei bambini, ribaltando in toto quelle che erano le mie ambizioni. Pensavo che dedicarmi all’infanzia sarebbe stata una diminutio, rammento che gli domandai persino come fosse possibile che esistessero tumori anche nei bambini. Lui mi disse soltanto: Franca, c’è tanto bisogno...».
Quale fu il suo paziente zero?
«Simone, lo vedo come se fosse qui, adesso. Ha due anni, siamo verso la fine del 1967. Viene ricoverato con un nefroblastoma del rene già in fase metastatica. È il calvario di Simone che mi fa dire: rimarrò qui per sempre, mi applicherò anima e corpo alla cura di queste malattie. Nel ’69 vado a Parigi e all’istituto Roussy incontro la dottoressa Odile Schweisguth,
una leggenda della pediatria europea. Vedo in un giorno più ragazzini malati che nei tre anni precedenti. Torno a Milano e non vacillo più. All’Istituto le stanze diventano due, poi quattro con soggiorno e cucina e nel 1975 la pediatria conquista mezzo corridoio al sesto piano. Nell’84 ha finalmente anche una sua autonomia fisica ».
Travesto l’amore con le parole di Frank Ostaseski, fondatore dello Zen Hospice
Project: «Gli occhi di un malato che sta morendo sono gli specchi più tersi che abbia mai incontrato. Davanti a quello sguardo non ci si può più nascondere». Che cosa si prova davanti a un bimbo che muore lentamente, inesorabilmente?
«Bisogna distinguere l’aspetto tecnico da quello emotivo e cercare un equilibrio tra i due, altrimenti si rischia di non fare bene il proprio mestiere. Io ho pianto senza pudore ogni volta che mi è morto un malato, ma in me ha sempre prevalso l’impulso al fare inculcatomi da mia madre, una donna che se n’è andata a 99 anni lasciando ai mie fratelli e a me una lettera in un cassetto con la quale ci ringraziava per averla portata qualche tempo prima in America per la prima volta e si scusava di non aver dettato testamento, spiegandoci che era troppo felice per riuscire a pensare alla morte. Fare, fare, fare... fino all’ultimo minuto».
Dobbiamo quindi arrenderci alla legge che tutto quello che amiamo è destinato a morire?
«Sì, ma insisto su un’altra distinzione. Accanto a un bambino malato c’è sopra di tutto, insostituibile, l’amore materno. E lei non immagina quanto amore materno ho scoperto nei padri, un amore traboccante di latte e di miele come scriveva Fromm. Poi viene il voler bene dei medici, ma non solo il loro. Si crea attorno al paziente un affetto multiplo e condiviso, voglio dire che bisogna essere in tanti per sopportare un lutto che probabilmente arriverà: infermieri, assistenti sociali, psicologi,
perfino il prete se necessario. Sa quante volte ho visto dieci medici chini su un bambino sofferente anche solo nel tentativo di cercare una vena, e sette non erano obbligati a essere
lì?».
Il bene sembra nelle sue riflessioni un sentimento facile. Siete di fronte alla fragilità fisica estrema dovuta al male e all’innocenza psicologica più pura. Non potete neppure pretendere di essere ricambiati dai vostri malati. L’amore scorre a senso unico e inconsapevole.
«Non è vero. Io ho avuto indietro moltissimo. Una madre contadina analfabeta che sapeva solo far di conto e che aveva appena perso la figlia mi disse semplicemente: ti ringrazio dottoressa perché tu hai voluto bene anche a me. Mi sono appassionata alla storia delle vite di tutti i miei malati, cercando di risalirle fino all’amore del loro primo giorno».
Come sono i loro ultimi giorni?
«Siamo tutti uguali quando ci approssimiamo alla fine. Anche i bambini a un certo punto capiscono che non ce la faranno, se sono in ospedale chiedono di andare a casa. Molti vogliono muoversi, viaggiare, riempire gli occhi di cose, colori, rumori, voci familiari. Non vogliono tralasciare un attimo residuo di vita. Un piccolo di tre anni in fase terminale che andai a trovare in famiglia si faceva portare in giro in auto per ore. Il faccino incollato al finestrino, mormorava soltanto
DISEGNO DI GIPI
con meraviglia: mamma che roba!».
Che cosa si prova quando si perde un figlio?
«Per un essere umano è il dolore più grande. Faccio mie le parole del cardinale Martini: toglie la forza, la vista e l’udito».
Prendersi cura di qualcuno non significa anche esercitare una fascinazione, una seduzione nei confronti di coloro la cui vita dipende da te?
«Può diventare un bisogno, questo sì. Quasi una droga».
Ho l’impressione che i medici assomiglino sempre più ad atleti chiamati a battere un primato. Meglio o peggio che in passato?
«La mia generazione, penso per esempio a Veronesi, Ravasi, Molinari, ha avuto la fortuna di essere protagonista di una lunga stagione pionieristica che portava con sé la memoria dei colleghi degli anni cinquanta e sessanta, medici che non avevano nulla e che sono stati eroi, quasi profeti del progresso tecnico e scientifico. Oggi sappiamo di più ma siamo diventati più cinici e individualisti, soprattutto da quando gli ospedali sono gestiti come aziende».
Il cancro sarà sconfitto?
«Non sono così ottimista, è una malattia dalle origini troppo complicate. Una follia biologica».
Ha mai sbagliato per eccesso d’amore?
«Sì, e gli do un altro nome: accanimento terapeutico, una delle aberrazioni del nostro mestiere. Ricordo un ragazzino di undici anni ormai allo stremo per il quale decisi il supporto meccanico nel tentativo di ovviare all’insufficienza renale. Gli provocai sei mesi ulteriori di inutili patimenti. Qualche giorno dopo la sua morte, la mamma venne a trovarmi e mi disse: non dimentichi quanto ha sofferto il mio bambino, dottoressa, e non lo faccia mai più».