il Fatto Quotidiano 28/9/2012, 28 settembre 2012
DIETRO LA “DIFFAMAZIONE” C’È FARINA ALIAS BETULLA
La prosa di Dreyfus è proprio quella di Betulla, smascherato a Porta a Porta da Vitto-rio Feltri e quindi costretto alla confessione: stesso periodare spezzato, stesso gusto melodrammatico per scene che non ha visto. “Un ginecologo le ha estirpato il figlio e lo ha buttato via”, scrive Dreyfus sulla prima pagina di Libero il 18 febbraio 2007. “Lei proprio non voleva, si divincolava... Aveva gridato invano: ‘Se uccidete mio figlio, mi uccido anch’io’”. In realtà, la ragazzina tredicenne con problemi di droga, rimasta incinta, aveva firmato, insieme a sua madre, la richiesta di poter abortire. Betulla, ovvero Renato Farina, nell’estate 2004 aveva raccontato su Libero un’altra scena impossibile: “Verso le 18 di giovedì, alla scadenza dell’ultimatum, Enzo viene bendato... Baldoni si strappa la benda, getta la kefiah palestinese che gli avevano messo indosso. E si batte... mentre Enzo si contorce e grida, gli sparano alla schiena, alla testa”. È il racconto della morte di Enzo Baldoni, giornalista rapito e ucciso in Iraq il 26 agosto 2004. Anche qui, c’è qualcuno che si divincola. Peccato che la scena sia del tutto inventata. Peggio: costruita su misura, su ordine degli uomini che guidavano il Sismi, per dimostrare che il servizio segreto militare italiano era a un passo dall’ottenere la liberazione di Baldoni, ma questi aveva rovinato tutto ribellandosi e tentando una fuga impossibile. Il Sismi di Nicolò Pollari e Pio Pompa in quei giorni aveva messo in giro la favola di un video che ritraeva la scena. Farina addirittura la racconta. Ma era solo un’intossicazione informativa: il video non esisteva. Ad al Jazeera era stato mandato dai rapitori un solo, drammatico fotogramma di Enzo morto. Così Baldoni è stato ucciso due volte. La prima dai terroristi dell’Esercito islamico dell’Iraq. La seconda da chi lo ha raccontato, su Libero di Vittorio Feltri, come “un pirlacchione”, un perdigiorno a caccia d’emozioni, sotto l’incredibile titolo di prima pagina “Vacanze intelligenti”. Morto infine solo a causa della sua irruenza e dabbenaggine (in realtà, Baldoni era stato rapito dentro un convoglio che viaggiava sotto le insegne della Croce rossa, considerate la più sicura delle bandiere).
QUESTA È SOLO la più sconvolgente delle operazioni di Renato Farina. Nato a Desio, Brianza velenosa, il 10 novembre 1954, Renato nel 1978 comincia a scrivere sul settimanale di area ciellina il Sabato, su cui racconta, primo in Italia, delle apparizioni di Medugorje. Poi va a lavorare con Gad Lerner a “Milano Italia” e con Feltri (“un genio del giornalismo”) al Giornale e poi, da vicedirettore, a Libero.
Quando scoppia il caso di Abu Omar, l’imam rapito da agenti della Cia a Milano il 17 febbraio 2003, la procura milanese scopre il ruolo di alcuni giornalisti troppo “vicini” agli uomini del Sismi. Il più “vicino” di tutti è Farina, tanto “vicino” da collaborare con Pollari e Pompa, con il nome in codice “Betulla”, e da meritarsi un compenso: 30 mila euro, “ma era solo un rimborso spese”. Si vanta di aver dato una mano ai servizi segreti nella liberazione degli italiani rapiti in Iraq dopo Baldoni: nel 2004 Simona Pari e Simona Torretta, nel 2005 Giuliana Sgrena. I suoi mirabolanti contatti? Un giornalista della tv araba al Jazeera, Imad El Atrache (agente “Cedro”). In realtà, il suo capolavoro è la diffusione nel 2006 di una notizia (falsa) ispirata da Pompa,funzionariodelSismidetto Shadow, l’ombra del direttore del servizio, Pollari. Romano Prodi, da presidente della Commissione europea, aveva autorizzato le “extraordinary renditions”, i rapimenti Cia dei sospetti terroristi: non è vero, ma così ordina Pompa e così scrive Betulla. Farina scende in campo anche durante le indagini sul sequestro di Abu Omar. Con la sua specialità: spiare i magistrati. Su richiesta di Pompa, va dai pm che stanno indagando sul rapimento, Armando Spataro e Ferdinando Pomarici. Chiede loro un’intervista, mellifluo e sorridente.
MA IL SUO scopo era cercare di capire che cosa i magistrati sapevano del coinvolgimento del Sismi, per riferirlo a Pompa e Pollari. Spataro e Pomarici fanno finta di stare al gioco, ma avevano intercettato la telefonata in cui Pio Pompa, strapazzando Betulla, glifaceva “ripassarela lezione” prima della falsa intervista. Esilarante l’intercettazione in cui poi Farina fa rapporto a Pompa: “È stata un’ora di confronto durissimo ... Ma io ho retto il colpo...”. Per questa sua impresa, viene accusato di favoreggiamento. Ne esce patteggiando una pena a sei mesi di reclusione. La legge vieta ai giornalisti di lavorare per i servizi. Così l’Ordine dei giornalisti di Milano sospende Farina per un anno. L’Ordine nazionale lo radia, ma lui gioca d’anticipo, andandosene prima. I ciellini del Meeting di Rimini lo acclamano come un eroe. Il centrodestra lo propone a Milano per l’Ambrogino d’oro. Silvio Berlusconi lo candida nel 2008 alla Camera. Il suo direttore, Feltri, lo tiene al giornale e continua a farlo scrivere. Come poi Alessandro Sallusti, che gli piazza in prima pagina l’articolo con le falsità sulla ragazzina, il giudice, l’aborto.
Ieri il presidente Giorgio Napolitano e il ministro Paola Severino hanno convenuto sull’esigenza di modifiche normative (niente carcere) sulla diffamazione. Il direttore del TgLa7, Enrico Mentana, ha twittato un giudizio più immediato: “Troppo tardi per confessare, infame”. E Betulla ha risposto: “La parola infame è pericolosa, hanno già cominciato a minacciarmi via internet”. Gianni Barbacetto • PARLA LA VITTIMA: “LA VITTIMA SONO IO, NON SALLUSTI: FUI MINACCIATO PER MESI” - Il carcere? Non sta a me stabilire se la legge sia giusta o la pena adeguata. Mi preoccupa che, nel dibattito di questi giorni, nessuno abbia sentito il bisogno di ricostruire i fatti, perché qui la libertà di stampa c’entra poco o nulla”. Giuseppe Cocilovo, il giudice tutelare di Torino che ha ottenuto la condanna di Alessandro Sallusti, abbandona il riserbo degli ultimi giorni e affronta deciso il momento di notorietà che suo malgrado si trova ad affrontare. Ed eccoli, i fatti: “Era il 17 febbraio 2007. La Stampa – racconta Cocilovo – parla di un giudice che avrebbe ordinato a una minorenne di interrompere una gravidanza. Trovo la notizia assolutamente folle e non posso sospettare che parli di me. Lo capisco poi dalle telefonate dei giornalisti e dal pm che apre subito un fascicolo, a cui bastano poche ore per capire che la notizia di reato è inesistente”.
COCILOVO fa semplicemente ciò che la legge gli consente: “La ragazza aveva 13 anni, per l’interruzione di gravidanza è necessario il consenso di entrambi i genitori, ma sono separati e non si intende informare il padre. Io valuto le ragioni addotte e autorizzo la minore a decidere in autonomia, nulla più. Dopo quell’udienza la ragazza avrebbe potuto anche cambiare idea, chiamare il padre e perfino decidere di non abortire più”. Alle 15,30 del 17 febbraio un’Ansa smentisce la notizia e il giorno dopo La Stampa corregge il tiro: “Libero invece – ricorda Cocilovo – se ne esce con tre pagine dedicate alla vicenda del giudice che ordina alla ragazzina di abortire, tra cui quell’articolo violento a firma Dreyfus”. Un noto avvocato torinese contatta il quotidiano allora diretto da Alessandro Sallusti per chiedere una rettifica: “Risposta: ‘Per noi è tutto vero’ – racconta Cocilovo – e chiudono i contatti”.
Sembra impossibile che si possa pensare che un giudice abbia questo potere, ordinare un aborto e coinvolgere in questo disegno perverso ostetriche e ginecologi. Eppure di questo veniva accusato Cocilovo: “Non potevo far altro che querelare. Sarebbe bastata una rettifica, scrivere ‘la notizia riportata il 18/02/2007 a proposito del giudice che ordina l’aborto è falsa. Ce ne scusiamo con i lettori’, ma così non è stato”. Il processo arriva fino in Cassazione: “Prima dell’udienza – racconta il giudice – gli avvocati di Sallusti mi contattano per arrivare a una transazione. Io propongo di devolvere 20 mila euro in beneficenza a Save the Children. Ora leggo che Sallusti sostiene che avrei chiesto nuovi soldi per me. Sorvolo sul carattere ulteriormente diffamatorio di queste affermazioni, tanto le bugie hanno le gambe corte”.
FA MOLTO discutere che un giornalista rischi la galera principalmente per un articolo scritto da altri: “Vero, ma è credibile che il direttore non abbia coordinato la titolazione delle prime tre pagine? Perché il falso era già nel titolo. Era una chiara scelta editoriale. La violenta diffamazione che mi augurava la pena di morte, poi, era opera di un giornalista già radiato dall’ordine di cui si accettava la collaborazione. Bastava dar conto ai lettori dell’errore e tutto questo non sarebbe accaduto”.
Ma allora il carcere è eccessivo? “Non sta a me dirlo, ma questo non è un reato di opinione, è una diffamazione deliberata. Che la notizia fosse falsa era ormai noto, bastava leggere La Stampa. E poi – conclude Cocilovo – vorrei far notare che in tutta questa storia la vittima sono io. Renato Farina ha scritto nome e cognome, sono sull’elenco telefonico, per mesi sono stato minacciato e ho ricevuto telefonate anonime, per una diffamazione volontaria e deliberata. Cosa c’entra questo con la libertà di stampa”? Stefano Caselli