Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore 30/9/2012, 30 settembre 2012
UN PARADISO DI NOME DELAWARE
Antille olandesi, Isole Cayman, Panama. Più vicino a noi, Andorra, Montecarlo, isola di Man o di Jersey, Liechtenstein. E ovviamente la solita Svizzera. Quando si parla di paradisi fiscali sono questi i nomi dei Paesi che vengono subito a mente. Tra i paladini della lotta all’evasione e al riciclaggio di denaro spiccano invece gli Stati Uniti, primi nella storia a costringere Berna e le sue banche a cedere su quello che è da sempre il cardine del sistema finanziario elvetico, il segreto bancario. Inghilterra e Germania si sono accodati solo dopo. L’opera di sfondamento l’hanno fatta gli Usa. Nel nome della trasparenza e della giustizia fiscale.
Ma nella recente inchiesta sulle attività della ’ndrangheta in Lombardia dietro al «complesso sistema finanziario fraudolento finalizzato all’evasione fiscale e specializzato nel business del cosiddetto offshore» gli inquirenti hanno trovato «il paradiso fiscale statunitense del Delaware». E nella sua ordinanza contro Teodoro Nguema Obiang, figlio del presidente/padrone della Guinea Equatoriale accusato di aver accumulato un patrimonio illegale di centinaia di milioni di dollari in Francia e negli Stati Uniti, il Dipartimento di Giustizia di Washington sostiene che gran parte di quei fondi sono stati schermati da società di comodo costituite negli Usa.
Due casi isolati? Neppure per sogno. Da un’inchiesta de Il Sole 24 Ore emerge che sul fronte della trasparenza societaria gli Usa sono uno dei peggiori trasgressori. Anzi, c’è chi lo ritiene il peggiore in assoluto. Jason Sharman, professore della Griffith University (Australia) e autore di un recente studio sui paradisi fiscali commissionato dalla Banca Mondiale, non esita a dirlo: «Gli Usa pretendono dagli altri Paesi quello che non fanno a casa propria. La realtà è che il loro è il più importante sistema finanziario al mondo. Sia per attività legittime che per quelle illegittime».
La sua, spiega, non è un’opinione. È la logica deduzione dei dati raccolti nel corso del lavoro fatto con altri quattro colleghi per la Banca Mondiale. Da una loro analisi di 817 società di facciata emerse in 213 casi di corruzione investigati in tutto il mondo, ben 102 sono risultate essere state registrate negli Stati Uniti (in particolare in Delaware, Nevada e Wyoming). Due volte tante quelle registrate a Panama. E ben sette volte quelle delle Isole Cayman. E negli stessi Usa sono risultati essere stati aperti 107 conti in banca. Dieci volte di più di quelli aperti nell’isola di Jersey o in Liechtenstein.
Che gli Usa siano destinazione preferita di fondi neri provenienti da ogni angolo del mondo, lo conferma anche Heather Lowe, consigliere legale della Ong Global Financial Integrity, anche perché «negli Usa è estremamente semplice costituire una società di facciata mantenendone anonima la proprietà». Quanto semplice lo ha provato lo stesso Sharman, quando ha contattato Killucan International Inc, un’agenzia di Las Vegas specializzata nella registrazione di società di comodo, e per poche centinaia di dollari ha dato vita alla Bcp Consolidated Enterprises, società da lui stesso controllata attraverso il filtro di Killucan. Il Sole 24 Ore ha appurato che a quello stesso indirizzo - 4830 Impressario Court - risultano avere sede altre 631 società di comodo. Tutte stipate in un villino monofamiliare ai margini del deserto che evidentemente serve anche da abitazione per il gestore di Killucan. Presso un altro indirizzo, il civico 2710 di Thomas avenue, a Cheyenne, in Wyoming, l’agenzia Reuters ha invece trovato più di duemila società. Inclusa una creata per conto dell’ex primo ministro dell’Ucraina, Pavlo Lazarenko, oggi in carcere per corruzione e riciclaggio.
Ma il record appartiene al civico 1209 di North Orange Street, a Wilmington, nel Delaware, dove risultano risiedere oltre 285mila società. Inclusa una attribuita a Stanko Subotic, criminale serbo condannato per contrabbando.
A poco più di 150 chilometri da Washington, Wilmington è ritenuta la capitale mondiale delle registrazioni societarie. Quasi la metà delle aziende americane hanno una sede lì. Così come centinaia di migliaia di società di comodo. «Ogni anno negli Usa vengono costituite circa due milioni di nuove entità societarie. E a quasi nessuna di queste è richiesto di fornire informazioni sui loro veri proprietari. È un problema enorme», sostiene Heather Lowe. Da 12 anni il senatore democratico del Minnesota, Carl Levin, sta cercando di far approvare in Congresso una legge sulla trasparenza societaria. Ma nonostante la primavera scorsa 41 Ong americane abbiano inviato una lettera a ogni parlamentare americano invitandolo a sostenere il disegno di legge di Levin, le probabilità che venga approvato quest’anno rimangono pressocché nulle. «Per alcuni Stati la registrazione societaria dà un contributo enorme alle loro casse. Allo Stato del Delaware l’ufficio della Division of Corporations costa circa 12 milioni di gestione, ma consente di incassare oltre 750 milioni all’anno. E il timore è che l’eliminazione delle società anonime vada a intaccare quelle entrate», sostiene Lowe.
«In realtà si potrebbe tranquillamente imporre una maggiore trasparenza senza in alcun modo burocratizzare le procedure per chi non ha nulla da nascondere. Ma evidentemente Washington non lo vuole fare. È molto più facile mettere pressione sulle banche svizzere che su quelle americane. Anche perché quelle svizzere non hanno una lobby che le protegge», sostiene Sharman, secondo il quale a bloccare gli sforzi di Levin è soprattutto la resistenza di tre potentissime lobby, quella delle banche, quella delle Camere di Commercio e quella degli avvocati. «Le associazioni bancarie di California, Texas e Florida hanno apertamente dichiarato di essere contrarie a qualsiasi riforma che possa ridurre l’afflusso di capitali in fuga dall’America Latina», aggiunge il professore australiano. A suo dire le lobby delle Camere di commercio e degli avvocati si oppongono invece perché temono che la nuova normativa possa segnare il primo passo di una stretta regolatoria. «Il risultato è che oggi gli Usa sono un paradiso fiscale più sicuro dell’Isola di Man o delle Cayman, perché se si vuole costituire una società in quelle isole occorre fornire alle autorità locali documenti di identificazione che rimangono poi agli atti, mentre in alcuni Stati americani questo non è previsto».
Rebecca Wilkins, della Ong statunitense Citizens for Tax Justice, è altrettanto severa: «Il fatto che negli Usa sia consentito costituire società di comodo la cui proprietà è completamente anonima permette a criminali di tutto il mondo di nascondere e riciclare proventi delle loro attività illecite, dall’evasione fiscale al traffico di droga o quello di esseri umani. Il tutto sotto quella patina di rispettabilità fornita da una corporation americana».
Il Sole 24 Ore ha appurato che tra gli addetti ai lavori il ruolo degli Usa come destinazione è un vero e proprio segreto di Pulcinella. Il 24 maggio scorso il Comitato economico e sociale europeo ha adottato un «parere» sul tema "Paradisi fiscali e finanziari: una minaccia per il mercato internazionale dell’Ue" in cui del Delaware si dice: «Che il piccolo Stato a Sud della Pennsylvania offra grossi vantaggi alle società offshore, presentandosi come una alternative alle isole Cayman o alle Bermuda sono in pochi a saperlo, ma chi opera nel settore ne è al corrente da tempo». E nella sua ultima "valutazione", il Gafi, l’organismo intergovernativo per la promozione di politiche di contrasto al riciclaggio di denaro, in materia di trasparenza sui beneficiari economici delle società a responsabilità limitata agli Stati Uniti ha assegnato la classificazione di «non in regola».
«Il problema è che gli organismi preposti alla lotta ai paradisi fiscali come il Gafi o la stessa Ocse si sono sempre dimostrati riluttanti a spingere Washington ad affrontare la questione della vulnerabilità del suo sistema societario e finanziario. Il che sminuisce la loro stessa credibilità».