Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  ottobre 01 Lunedì calendario

DA GRANDE UNIPOL A LEGA COOP COSÌ CAMBIA LA FINANZA ROSSA


Cooperative capitaliste non è più un ossimoro. Le coop hanno rotto gli argini, superato gli steccati ideologici. Stanno avanzando. Sono entrate nel salotto della finanza milanese attraverso Unipol sulle ceneri del fallimento delle partecipazioni reticolari e amicali di Salvatore Ligresti. Le assicurazioni delle coop post-comuniste di Via Stalingrado in Mediobanca. Presenza temporanea, è vero, perché l’Antitrust ha condizionato il via libera all’operazione Fonsai alla cessione della partecipazione in Piazzetta Cuccia. C’è tempo fino al 2013. Ma intanto ci sono. Mentre non c’è alcun problema a mantenere quel 5,4 per cento di Rcs, che vuol dire il salotto del Corriere della sera. Enrico Cuccia, e non solo, non avrebbe mai potuto immaginarlo. Possiedono banche, quelle del credito cooperative, e partecipano via Unipol a Unicredit e Montepaschi. Da poco, appunto, hanno dato vita al secondo gruppo assicurativo tricolore, dopo il gigante Generali. Sono i colossi della grande distribuzione e dell’agro-industria made in Italy. Non riducono i posti di lavoro e si estendono nel welfare sussidiario, frutto dell’invecchiamento della popolazione e dei tagli lineari alla spesa pubblica decisi a Bruxelles ma applicati a Roma. Sono la via italiana al capitalismo sul modello delle public company. Quel modello che abbiamo sempre cercato senza mai trovare nel paese del capitalismo relazionale e familistico, dei patti di sindacato e dei noccioli duri con micro partecipazioni funzionali al controllo
ma non all’efficacia della governance. Una trasformazione silenziosa di quel mix mite, del tutto originale, tra capitale e lavoro che sono da sempre e dovunque le cooperative. Forse sono — nel secolo dell’avanzata cinese e della sconfitta del turbocapitalismo finanziario made in Usa — pure una risposta alla Grande Crisi del mercato globale. È come per la vecchie Partecipazioni statali: disintegrati i partiti sono rimaste i gruppi industriali e i boiardi più liberi che mai. Manager, abbiamo cominciato a chiamarli. Anche se non sempre con capacità di portare a casa risultati soddisfacenti per stakeholder e shareholder. Così le cooperative: imprese senza più referenti politici diretti. Capitalisti, ormai. Le aziende, grandi e piccole, sono sopravvissute alla fine delle ideologie novecentesche. E dei partiti amici ora non hanno più bisogno. L’ultimo segno dei tempi diversi arriva, non a caso, da Bologna città dell’antica cooperazione, del collateralismo spinto tra partito (quando il Partito c’era) e le aziende. Qui, davvero, sono crollati i muri. «Siamo cugini della Confindustria e controparti della Cgil», fu una specie di slogan coniato qualche tempo fa dal presidente della Legacoop, Giuliano Poletti. Ecco, appunto: tra Unindustria Bologna di Alberto Vacchi e le coop di Giampiero Calzolari è stata sancita un’alleanza, benedetta dal pragmatismo lombardo di Giorgio Squinzi, per provare a superare insieme la recessione con meno danni possibili. Si profilano aggregazioni. Cooperazioni, verrebbe da dire. In tutto 30 miliardi di euro di fatturato, oltre 200 cooperative (tra cui Manutencoop, Granarolo, Coop Adriatica) e circa duemila aziende private. Si vedrà che cosa accadrà, di sicuro è un cambio di rotta. Forse anche un’accelerazione verso una semplificazione della rappresentanza. Le cooperative dentro la Confindustria? Non è più impossibile ipotizzarlo dopo il peso crescente che nella lobby dei padroni hanno assunto i grandi gruppi partecipati dal Tesoro, Eni, Enel, Poste, Finmeccanica. Mentre la Fiat di Sergio Marchionne se n’è andata dal Viale dell’Astronomia senza rimpianti. Di sicuro non c’è più una seria A e una serie B del capitalismo italiano. La serie è ormai la stessa, quasi sempre il mercato. Sì, le cooperative godono di forti vantaggi fiscali, ma di fronte alla provocazione di qualche tempo fa del presidente della Confcooperative, Luigi Marino, di applicare a tutti le stesse regole fiscali (tassazione parziale degli utili portati a riserva a fronte di una serie di vincoli) dalle aziende privare c’è stato — ovviamente — solo un assordante silenzio. Da tempo le barriere sul fronte della rappresentanza cooperativa sono state superate. La fine dei Ds, Democratici di sinistra, ha portato alla fusione a freddo tra Popolari ed ex comunisti, e sul versante della cooperazione, gradualmente, all’Alleanza delle cooperative italiane. I “rossi” della Legacoop, guidati da Poletti, alleati con le cooperative “bianche” di Marino e con quelle laiche della Agci, presiedute da Rosario Altieri. È stata, all’inizio del 2011, la fine di un pezzo di ideologismo sociale del secolo scorso. Le imprese sono imprese. Punto. È accaduto pure tra le piccole aziende artigiane e commerciali: Cna e Confesercenti, organizzazioni di sinistra, insieme alla Confcommercio e alla Confagricoltura, storicamente vicine alla Dc e poi al centro destra della seconda Repubblica, per dare vita a “Rete Imprese Italia”. Con un vantaggio per le cooperative: sono tutte aziende dello stesso tipo, senza le forti differenze che esistono tra un negozio e una bottega artigianale; hanno la medesima cultura di impresa e lo stesso modello di relazioni industriali. Di più: dall’inizio degli anni Novanta le cooperative firmano gli stessi contratti di lavoro, hanno dato vita a fondi comuni per la previdenza complementare, così per la formazione e i confidi. La politica conta sempre meno. Non ci sono ricerche specifiche ma secondo alcune stime non più del 60 per cento degli iscritti alla Legacoop vota per i partiti del centrosinistra. Tanti sono i voti che sono andati nel passato alla Lega Nord. Qualche parlamentare del Pd (per esempio Massimo Marchignoli, ex sindaco di Imola, Rita Ghedini, già dirigente della Lega, e Paola De Micheli, vicina alle cooperative bianche) ha ancora un legame stretto con il mondo cooperativo. Ma nulla di significativo almeno a livello nazionale. Più articolato è il rapporto a livello territoriale, come emerge dal libro “Mente locale” dell’ex sindaco di Ferrara, Gaetano Sateriale, oggi stretto collaboratore del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso. Perché le coop si sentono aziende come le altre nei rapporti di lavoro e nella ricerca dell’efficienza, però finiscono per rivendicare, dietro le quinte e poco sul palco e anche un po’ impropriamente, un legame privilegiato con gli amministratori locali espressione del centrosinistra, quando si tratta di conquistare appalti. Un doppio piano strategico che vive ancora con gli occhi rivolti al passato e con scarsa logica del mercato. Ma l’attivismo politico appartiene in questa stagione soprattutto a Luigi Marino, presidente dal 1991 delle Confcooperative. Un anno fa a “Todi 1” si espresse esplicitamente a favore della formazione di un nuovo partito dei cattolici che poggiasse sulla piattaforma delle associazioni sociali di ispirazione cristiana. A metà settembre era a Chianciano a condividere con il ministro Corrado Passera, l’ex presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, e Giorgio Guerrini, presidente della Confartigiano, la “rifondazione” del Centro cattolico di Pier Ferdinando Casini. Un progetto che, adesso, dopo le esternazioni da New York della scorsa settimana del premier, Mario Monti, porta dritto al “Monti bis”. Marino, che ha costruito un legame solido pure con il gruppo di “Italia Futura” del presidente della Ferrari, Luca di Montezemolo, potrebbe essere candidato alle prossime elezioni. Il mondo delle cooperative si muove quasi in controtendenza rispetto alle imprese standard. Ci sono 80 mila imprese cooperative che danno lavoro a 1,4 milioni circa di persone. Il 7,7 per cento del Pil si realizza nelle coop. Il Censis, nel suo “Primo Rapporto sulla cooperazione”, ha calcolato che dal 2001 al 2011 le cooperative sono aumentate di 11 mila unità, pari a un incremento in percentuale del 14,2 contro il 7,7 delle imprese italiane. Fa riflettere, in termini di modello, il fatto che durante la lunga recessione italiana le cooperative abbiano sofferto sì, ma non abbiano ridotto la propria manodopera. Dal 2007 al 2011 — scrive il Censis — l’occupazione creata dalle cooperative italiane è aumentata dell’8 per cento facendo lievitare il numero degli occupati, tra soci e non soci, da un milione e 279 mila agli attuali un milione e 382 mila. Nello stesso arco di tempo l’occupazione nelle altre imprese è calata del 2,3 per cento. Ed è interessante considerare che a trainare l’aumento dell’occupazione sia stato il settore della cooperazione sociale (+ 17,3 per cento), quasi un adeguamento just in time ai mutamenti della composizione sociale e alla domanda di nuovi servizi. Diversa, rispetto al modello classico, è anche la tipologia contrattuale: oltre l’85 per cento degli addetti ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Le cooperative false, con i finti soci-lavoratori, appartengono alla cronaca giudiziaria e non a quella economicofinanziaria. Ma sono anche diverse le dimensioni delle imprese: piccole, piccolissime quelle della media italiana (3,5 addetti per impresa), più grandi quelle delle cooperative con 17,3 dipendenti a testa. Sociale ma anche industria. Il 50 per cento della filiera agro-alimentare made in Italy, con circa 100 mila dipendenti, infatti, fa parte del mondo cooperativo. Che negli anni passati ha salvato marchi (da Cirio a De Rica) destinati al default. È stata la difesa senza clamore dell’italianità. C’è poi la finanza. L’Unipol di Carlo Cimbri è un’eccezione nel sistema cooperativo, tanto che è una società per azioni, controllata dalle coop. Il nocciolo duro è altro: sono le 440 banche che appartengono credito cooperativo, radicate nel territorio, vincolate al territorio, legate al sistema delle ex coop bianche. Ebbene anche qui i dati sono in significativa controtendenza: alla fine dello scorso anno gli impieghi della banche del credito cooperativo erano pari a 151,8 miliardi di euro, in crescita del 3,2 per cento annuo contro l’1,5 per cento dal resto del sistema bancario. È un modello davvero pervasivo quello delle cooperative. Sarà mica questo il “quinto capitalismo” italiano?