Tonia Mastrobuoni, la Stampa 1/10/2012, 1 ottobre 2012
QUAL È IL SALARIO MEDIO DEI PRECARI
Ieri l’Isfol ha pubblicato un aggiornamento del Rapporto 2012 che fa luce in particolare sul valore del lavoro precario, oggi in espansione proprio a causa della crisi. Qual è il salario medio dei precari?
L’Isfol, l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, ha confermato che il salario medio dei lavoratori precari rimane sotto i 1.000 euro, è di 945 euro, indipendentemente dall’età. Il livello retributivo medio di chi ha un contratto a tempo indeterminato si aggira invece attorno ai 900 euro solo per chi ha tra i 15 e i 24 anni. La busta paga media per chi ha un posto fisso cresce a 1.500 euro circa per la classe dei 55-64enni.
È un dato stabile o la situazione sta peggiorando?
Peggiora. Sostiene l’Isfol che nel 2011 i precari hanno percepito in media una retribuzione inferiore del 28% rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato. Si tratta di un divario in crescita, rispetto all’anno precedente: nel 2010 la forbice tra lavoratori fissi e precari era del 27,2%. Peraltro la busta paga di mille euro per i precari è talmente tipico, ormai, che si parla da tempo di «Generazione mille euro».
Perché esiste un divario così ampio tra precari e lavoratori con il posto fisso?
Un motivo è che i lavoratori a tempo indeterminato hanno diritto agli scatti di anzianità o a emolumenti extra come gli straordinari o l’orario notturno. Con gli anni cresce, dunque, la differenza tra chi lavora, anche gomito a gomito, ma con tipi di contratto diversi, precari o fissi, perché ai primi viene rinnovato sempre lo stesso contratto, mentre i secondi usufruiscono degli aumenti in busta paga legati all’anzianità.
Ci sono altre ragioni che spiegano queste differenze di salario?
Un’altra ragione che spiega le differenze tra gli stipendi medi è il fatto che i contratti a tempo indeterminato sono regolamentati dai contratti nazionali del lavoro. Ogni categoria (metalmeccanici, chimici, tessili, eccetera), ha perciò le sue regole specifiche, decise dai sindacati e dalle rappresentanze dei datori di lavoro e prevede, soprattutto, minimi di stipendio fissi e inderogabili. La stragrande maggioranza dei lavoratori che ha una data scritta sul contratto, al contrario, non ha diritto ad alcun minimo di stipendio. Infine, ben un quarto dei contratti a tempo sono part-time (contro il 15% circa di quelli a tempo indeterminato), dunque retribuiti meno.
Cosa sono i precari?
Una volta gli economisti e i politici dicevano che non bisognava usare questo termine, che bisognava parlare di «flessibilità». Erano gli Anni Novanta e la globalizzazione stava ridisegnando ovunque le regole del lavoro; la favola che molti raccontavano allora era quella di una vita lavorativa dinamica, in cui le persone avrebbero imparato a cambiare spesso lavoro, ma avrebbero guadagnato sempre di più perché di contratto in contratto i datori di lavoro avrebbero loro riconosciuto l’esperienza accumulata e i miglioramenti professionali. In Italia non è andata proprio così.
Qual è la differenza con i lavoratori flessibili, dunque?
Perfezionando i contratti interinali e i cosiddetti co.co.co e stabilendo livelli bassissimi di contributi, la legge Treu (1997) ha dato il la a una diffusione enorme di questo tipo di contratti (che proseguì poi con altre riforme come la Biagi). Ma nello stesso anno una commissione governativa, la Onofri, avvertì già che bisognava trovare i soldi anche per fare una grande riforma degli ammortizzatori sociali, per non lasciare quei lavoratori senza rete, nel caso di perdita del posto del lavoro. Una promessa mai mantenuta, da 15 anni a questa parte. Nel frattempo il numero dei lavoratori flessibili è lievitato e oggi i contratti a tempo sono il principale veicolo di ingresso nel mondo del lavoro. Ma le tutele sono ancora pari a zero. Inoltre il reddito bassissimo, come dimostra l’Isfol, continua a essere uno dei problemi principali di una generazione intera che passa da un contratto all’altro senza alcun miglioramento. Guadagnare 1000 euro al mese per dieci anni castra, ovviamente, qualsiasi ambizione di costruirsi un futuro (famiglia, figli, casa, eccetera). È il motivo per cui anche gli economisti più blasonati si sono arresi oggi al fatto che bisogna parlare di precariato, perché la flessibilità reiterata per anni e senza una prospettiva di crescita salariale e professionale diventa un problema esistenziale.
Che soluzioni ci sono?
Per i periodi di «buco» tra un lavoro all’altro ci vorrebbe una riforma degli ammortizzatori che andasse in direzione di una tutela universale dei disoccupati. Ma il costo è molto alto, stimato in 12-15 miliardi di euro all’anno. Quanto al reddito, ci sono molte proposte (per esempio quella dell’associazione «SanPrecario») che chiedono di uniformare l’Italia al resto d’Europa, dove quasi ovunque è prevista una soglia minima di retribuzione. A volte, come in Belgio o in Francia, anche nettamente al di sopra dei mille euro.