Massimiliano Panarari, la Stampa 1/10/2012, 1 ottobre 2012
NOI PUFFI SIAM COSÌ TOTALITARI E PIUTTOSTO RAZZISTI
Puffo-totalitarismo. E dire che, a prima vista, i simpatici esserini blu, gioia dei più piccini (e non solo) di tutto il mondo, sembrerebbero tanto carini e inoffensivi… Ma dietro di loro si muoverebbero - addirittura - forze politiche oscure, e il villaggio (collettivista) di questi gnomi altro non sarebbe che un’utopia (o, meglio, una distopia) totalitaria realizzata, valida per la peggior destra come per la peggior sinistra.
La tesi del totalitarismo puffesco sta al centro di un libro che in Francia aveva dato fuoco alle polveri delle polemiche, e che viene ora pubblicato in Italia, Il libro nero dei Puffi (Mimesis, pp. 146, € 12, cura e traduzione di Ilaria Gremizzi), scritto dal giornalista e sociologo (e già ghostwriter del leader centrista francese François Bayrou) Antoine Buéno.
Detta così potrebbe sembrare l’ennesima puntata della querelle sull’etichettatura politica da riservare a qualche icona delle strisce; e la storia del fumetto, si sa, ne è piena (con tanto di quesiti ancora aperti stile «Tex è progressista o conservatore»? E Batman?). Per non parlare del tormentone destra/sinistra gaberianamente applicato agli oggetti più strampalati e agli aspetti più vari (del genere - chi non se lo ricorda? - il bagno è di destra e la doccia di sinistra).
Nel suo pamphlet - a metà tra il duro J’accuse nei confronti di questi gnometti politicamente scorrettissimi e il giusto divertissement – invece, lo studioso (che alla parigina Sciences Po tiene un corso su letteratura e utopia) accumula parecchia documentazione e si muove con circospezione. Comincia, infatti, precisando che Peyo (alias Pierre Culliford, 1928-1992), il fumettista belga inventore nel ’58, sulle pagine della rivista Spirou , della saga dei Puffi (o, come li aveva chiamati lui, gli Schtroumpfs), era un moderato di centrodestra, elettore del Partito liberale e allergico a qualunque forma di estremismo politico. Appassionato di fate, elfi e Medioevo fantastico, collocò i suoi personaggi in una foresta senza tempo, mentre il figlio Thierry, destinato a continuarne l’opera, renderà il villaggio degli gnomi bluastri una metafora del reale e della sua contemporaneità. E, così, le loro creature si ritrovano a incarnare un certo geist (o, hegelianamente, lo Spirito del mondo) dell’epoca precedente e di quella, in cui stavano totalmente immersi, della guerra fredda. E diventano, senza intenzionalità degli autori, archetipi psicopolitici, con cui gli amanti della dietrologia e del complottismo possono andare a nozze, mentre il loro passaggio, nell’81, a cartone animato per la tv americana Nbc, a opera degli studios HannaBarbera, li fa passare da serie di nicchia a oggetto di culto planetario e fenomeno di massa della cultura pop globalizzata.
La puffologia, che vanta ormai una lunga tradizione (a partire dalla «puffo sessuologia», che descrive i nanetti, di volta in volta, come puritani o sessisti, fino all’interpretazione massonica della loro comunità c o m e Gran Loggia), si arricchisce così del primo esplicito trattato (fanta)sociopolitico. E le conclusioni risultano, giustappunto, tutt’altro che rassicuranti, a dispetto della popolarità dei Puffi presso il pubblico infantile. Quella «in blu» si rivela una società autarchica, anti-individualista, stabile e statica (e dove l’innovazione tecnologica, dal tosaerbe all’«aereopuffo», viene rapidamente avvertita come una minaccia); un posto senza circolazione di denaro e profondamente dirigista, nel quale l’onnisciente Grande Puffo dispone e provvede, non ammettendo alcuna dissidenza (anche perché, in sua assenza, in effetti, gli improvvidi gnometti inanellano, senza sosta, sciocchezze). Un universo fondato, secondo Buéno, sull’utopia, che finisce, naturalmente, per respirare la stessa aria «prometeica» e malata delle due ingegnerie sociali distopiche per antonomasia del Novecento, quella di Stalin e quella di Hitler. Ecco, allora, il puffo comunista, come dimostrerebbero il cappello frigio, le vignette disseminate di falci e martelli e una fisiognomica che ricorda inconsciamente quella di Mickey Mouse eroe a stelle e strisce (e converte così gli gnomi in altrettanti Topolini antiamericani), mentre l’effigie del Grande Puffo si colloca a mezza via tra la ritrattistica di Marx e quella (in maniera ancor più convincente) del «Piccolo padre», con Quattrocchi nelle vesti di Trockij. Dall’altra parte della barricata si trova l’arcinemico Gargamella, col gatto Birba e fattezze vagamente ebraiche, che diviene l’allegoria del capitalismo apolide e fa da ponte verso altri lidi estremi. La retorica comunitaria e da piccola patria, insieme all’antisemitismo, rappresenta infatti il trait-d’union con l’ulteriore figurascellerata del nazi-puffo, trincerato nel «villaggio corporativo», razzista, immerso in un immaginario tradizional-medievaleggiante, reazionario, fallocratico e anti-intellettuale (dove il povero Quattrocchi fa da capro espiatorio).
Insomma, «Noi Puffi siam così…», cantava Cristina D’Avena. Già, totalitari e piuttosto pericolosi, chioserebbe Buéno.