Emanuela Audisio, la Repubblica 1/10/2012, 1 ottobre 2012
SCHUMACHER LA GRANDE ILLUSIONE
Lo sport non è buono, non perdona infedeltà, né sopporta i lifting. Anzi li smaschera e ti caccia via. Anche se giri con le medaglie al petto, se ne frega della gloria frolla, centrifuga il tuo grande passato e te lo restituisce poltiglia. Nel viaggio preferisce le andate ai ritorni.
Se non meriti, se non ami pazzamente con tutto il cuore, meglio che te ne rivai: la strada la conosci, solo che stavolta l’addio è imbarazzante. I ricordi si sono consumati e quel po’ di vintage rimasto è vecchio. Gli altri corrono, tu sei lento. Il passato è cellulite stampato su un presente che non ha più riflessi.
È toccato anche a Michael Schumacher finire a terra, gli hanno tolto il volante, prego, vada via dalla pista, non faccia più danni e la smetta di franare addosso alle altre macchine. La Mercedes lo ha appiedato, vista la scarsità di risultati: in tre anni zero successi, un podio e una sola pole position. Come se Napoleone perdesse il torneo aziendale a battaglia navale. Schumi era rientrato nel 2009 dopo essere sceso dalla Ferrari nel 2006. Non aveva più niente da dimo-strare: sette titoli mondiali, nessuno in F1 era arrivato a tanto. Sorpassi razionali ma perfetti, motore come frequenza cardiaca, tante che il giorno che morì la mamma, lui a Imola corse (e vinse) lo stesso. Successo anche nella vita privata: moglie, due figli, cinque cani, villa fuori Ginevra. Serate in famiglia, davanti alla tv, con birra, poker e salsicce, prese nell’hard-discount Aldi, che si sa i miliardari comprano solo in offerta. E come suoneria del cellulare l’armonica di “C’era una volta il West”.
Ma la nostalgia non fa punti, né sorpassi azzardati in curva e quando si deposita sui miti diventa muffa. Schumacher è l’ultimo della lista, lo sport non tollera di essere preso e lasciato a seconda della convenienza e dello stress.
Dà e toglie, in maniera smisurata. Il giorno che ci vuoi fare i conti, è meglio che lasci, non può essere matematica. Anche Schumi aveva detto: «Non sopporto più obblighi, voglio decidere i tempi della mia vita». Pure Duran scendendo dal ring aveva giurato: «No más», mai più. Ma la libertà stanca, ti stufi della giornata vuota. Prima era tutto troppo, ora è troppo poco. Ti manca
l’adrenalina, l’urgenza,
pensi che l’esperienza sarà il tuo meccanico, che riprendere sottobraccio lo sport farà di te il pretendente di sempre. Torni in palestra, butti giù i chili, tormenti il tuo corpo. Hai già fama, soldi, soddisfazione, devi solo rimettere in circolo un po’ di quell’ansia sbagliata e prepotente di prima. È il solito gioco, lo conosci a memoria, ma forse ora lo conoscono meglio anche gli altri. Dai tutto, ti stremi, però non basta: sei rimasto indietro tu o sono andati avanti gli altri? Riflessi lenti e rughe veloci. Ritenti: non sei uno qualsiasi. Ma è come se le ali fossero appiccicate, senza più forza. E tu un impostore, un sosia da rientro. Lo sport non ti crede più, ti lascia la briglia, ma non ti concede trofei, né centimetri di gloria. Sei onesto, ma vuoi qualcosa che non ti appartiene più. Un
tempo
e una certezza che ora scappano.
Ci ha provato per Londra l’australiano Ian Thorpe, immenso campione di nuoto, fermatosi
a 24 anni per nausea dopo 11 titoli mondiali e 5 ori olimpici. Voleva finalmente stare sveglio la sera, non fare più l’osso di seppia che galleggia
sull’acqua e sull’esistenza. Ma non ce l’ha fatta.
Niente da fare per Janet Evans, la cocca delle piscine americane, 4 ori e 1 argento olimpico, che a 24 anni aveva detto basta. Fallito ai trials il suo rientro da mamma adulta: molta miseria, poca nobiltà. A 27 anni l’addio al tennis del mito Bjorn Borg. Non aveva bisogno di riprovarci, ma sette anni dopo sbagliò colpo. Si presentò nel ‘91 a Montecarlo con le vecchie racchette di legno e fece
un passo avanti che portò tutti indietro. Quel che restava di lui era una ridicola moviola, ma al naturale. Tornò nel 2001 a 39 anni, dopo tre stagioni di inattività, anche Michael Jordan, enorme campione di basket, sei titoli Nba, dopo un tentativo di riciclarsi nel ‘94 come mediocre giocatore di baseball. Almeno non scelse il mantello di prima, quello vincente dei Chicago Bulls, ma l’armata Brancaleone dei Was hington Wizards.
Anche Magic Johnson, il Peter Pan dei canestri, 5 titoli Nba, che a 32 anni, nel ‘91, scoprì di essere sieropositivo, è rientrato sul parquet molte volte. Per dignità, per dimostrare che anche un soggetto Hiv ha forza e diritto di giocare, tanto che vinse con il Dream Team a Barcellona nel ‘92. Ci cascano tutti nei rientri: Ray Sugar Leonard, Mark Spitz, Katarina Witt, Lance Armstrong, Mike Tyson, George Foreman, Evander Holyfield (ma ha 11 figli da mantenere). Spesso si torna perché in realtà non si è mai andati via. Pietro Paolo Mennea per 17 anni primatista mondiale
dei 200 metri, si ritirò
nell’81, rientrò a Los Angeles ‘84, ma deluso dal settimo posto, lasciò a dicembre, per ripresentarsi ai Giochi di Seul nell’88, dove nei quarti abbandonò la gara. È l’illusione di Dorian Gray. Ma lo sport quando ti presta il suo specchio non maschera gli sfregi, né carezza il tuo nome. Rientra a casa, va’.