Carlo Vulpio, la Lettura (Corriere della Sera) 30/09/2012, 30 settembre 2012
JEPPSON, L’ORO DI NAPOLI
«OBanc ’e Napule». Così venne soprannominato il centravanti svedese Hans Jeppson quando sbarcò sotto il Vesuvio per indossare la maglia azzurra della squadra di calcio del Napoli. Lo avevano comprato dall’Atalanta per 105 milioni di lire. Valuta 1952. Un record. Una follia. Una cifra che da un lato era un affronto per la miseria che ancora, a 7 anni dalla fine della guerra, affliggeva la città raccontata da Malaparte ne La pelle, ma dall’altro era anche una specie di ubriacatura collettiva che in quel momento come un anestetico aiutò Napoli a non sentire dolore. E a guardare con un po’ più di ottimismo al presente, persino a sognare un futuro migliore.
Jeppson, anzi Jeppsòn, era davvero una banca. Non tanto per l’aneddoto, forse vero forse inventato, che vuole un tifoso — allarmato nel vedere Jeppson abbattuto da un difensore avversario — esclamare: «Maròn! È carut ’o Banc ’e Napule!». (Madonna! È caduto il Banco di Napoli!). Quanto per altri tre e più validi motivi. Primo, perché l’operazione economica che consentì il trasferimento di Jeppson al Napoli valeva un quinto dell’intero bilancio del Banco di Napoli, quello vero, che nel 1952 era di cinquecento milioni. Secondo, perché dei 105 milioni sborsati dall’allora presidente della squadra, l’armatore Achille Lauro, 75 andarono all’Atalanta e 30 furono incassati in valuta aurea da Jeppson, attraverso un conto svizzero. Terzo, perché il suo acquisto fruttò al Napoli incassi mai visti prima di allora e al suo presidente Lauro, nonché sindaco Lauro e poi anche deputato Lauro, una popolarità enorme, che si aggiunse a quella di cui già godeva come ’O Comandante dell’omonima flotta navale.
Jeppson si era messo in mostra ai Mondiali in Brasile del 1950. In nazionale sostituì il grande Gunnar Nordahl, il Pompierone, come lo avevano chiamato quando venne a giocare nel Milan, e segnò due gol proprio contro l’Italia, sconfitta per 3 a 2. L’anno successivo si trasferì in Inghilterra, al Charlton, e poi eccolo in Italia, all’Atalanta, dove alla prima partita contro il Como segna il suo primo gol. Quell’anno ne farà ben 22 in ventisette gare. Più che sufficienti affinché tutti — Inter, Milan, Juventus, e persino il Legnano che allora era in serie A — «uscissero pazzi» per Jeppson. Ma a mettere a segno il colpo di mercato, che avrebbe fatto discutere l’Italia come forse nemmeno il referendum tra monarchia e repubblica, fu il presidente della squadra partenopea, che per sé e per Napoli progettava un Grande Napoli. Una squadra che per la prima volta portasse lo scudetto al Sud e celebrasse l’epica del riscatto della città e la grandiosità del suo viceré, Achille Lauro ’O Comandante.
Lo svedese, figlio di un pasticciere e studente molto diligente, che era andato a giocare in Inghilterra più che altro per imparare la lingua, e che in testa, se proprio doveva essere uno sportivo, aveva il tennis, capiva fino a un certo punto cosa accadeva intorno a lui. Gli sembravano tutti pazzi. Compreso il sindaco-presidente, che di calcio capiva poco o niente e lo lanciò nell’arena come l’uomo della Provvidenza, l’elemento decisivo di ogni gara, al punto che quando il Napoli vinceva era tutto un Viva Jeppson, ma se perdeva la colpa era di mister 105 milioni, che l’autocrate Lauro a un certo punto pensò bene di multare per duecentomila lire a ogni sconfitta subita dalla squadra. L’inizio a Napoli fu tormentato. Jeppson rimase quattro giornate senza far gol. Si sbloccò il 5 ottobre del 1952, a San Siro contro l’Inter. Ma il Napoli perse, e anche male, subendo cinque gol. Però da quel momento Jeppson dimostrò di essere un campione vero e con il Napoli segnò 52 reti in 112 partite, togliendosi la soddisfazione di battere per 4 a 1 (con una sua doppietta) proprio il Milan degli svedesi Green, Nordahl e Liedholm, il mitologico trio Gre-No-Li. L’impresa tuttavia non fu sufficiente a conquistare lo scudetto, il Napoli dovette accontentarsi del quarto posto.
Scudetto o meno, l’operazione Jeppson è entrata nella storia perché ha tracciato il solco delle spese folli per l’acquisto e l’ingaggio di un calciatore. Secondo uno studio del «Sole 24 Ore», quei 105 milioni di lire, convertiti in euro odierni varrebbero 1,5 milioni. Possono sembrare nulla in confronto ai 70 milioni di euro spesi nel 2000 dal Real Madrid per Zinedine Zidane (convertiti in euro odierni, 83 milioni), o ai 90 milioni di euro pagati nel 2009 dal Barcellona per Zlatan Ibrahimovic, o anche rispetto ai 13 miliardi di lire (in euro di oggi 16,5 milioni) versati dal Napoli nel 1984 per avere Diego Armando Maradona. Ma considerate le condizioni di vita di allora, 105 milioni di lire erano davvero una montagna di soldi.
Non è che con l’affare Jeppson il calcio all’improvviso avesse perso l’innocenza. Semplicemente stavano cambiando le cose. E le contraddizioni si sprecavano. Da un lato, per esempio, si premiava con il Nobel per la Pace il medico, teologo e missionario luterano Albert Schweitzer, mentre dall’altro si faceva tranquillamente il primo test nucleare all’idrogeno facendo esplodere una bomba da un megatone su un atollo delle Isole Bikini, nel Pacifico. Da una parte, c’era il Lauro che voleva far grande la città e la squadra, e dall’altra c’era il Lauro che in campagna elettorale tuonava: «Chi non mi vota è un cornuto!» e da politico innescava e avallava quel sacco edilizio di Napoli mirabilmente raccontato da Franco Rosi nel film Le mani sulla città, sceneggiato assieme a Raffaele La Capria. Jeppson e Lauro non furono soltanto un esempio del laurismo applicato al calcio, o un aspetto del più generale panem et circenses praticato ovunque, ma l’inizio della metamorfosi miliardaria del calcio. Che a Napoli, sinonimo di metropoli da sempre e forse per sempre «sgarrupata», ha trovato i suoi acuti più sorprendenti. Nel 1975, ecco il nuovo record per l’acquisto — due miliardi di lire (10 milioni di euro di oggi) — del centravanti Beppe Savoldi dal Bologna e poi nove anni dopo, come abbiamo già visto, l’altro record per l’acquisto di Maradona. Per non dire degli altri grandi giocatori stranieri (e oriundi) che hanno vestito la maglia del Napoli senza eguagliare o superare questi record, ma che certo non sono costati due lire: da Vinicio, Pesaola, Sivori, Altafini, a Krol, Diaz, Bertoni, Careca, Alemao, Dirceu, fino a Lavezzi, Hamsik e Cavani.
Hans Jeppson però è stato, rispetto a tutti gli altri, un caso particolare. Lui, in realtà, non voleva diventare un calciatore. E più che il centravanti del Napoli e della nazionale svedese, più che l’uomo d’oro del calcio italiano, Jeppson da grande avrebbe voluto essere un campione del tennis come il connazionale Björn Borg. Non è una enfatizzazione. Quando passò al Charlton, per esempio, era già campione nazionale studentesco di tennis in Svezia e pretese di giocare come calciatore dilettante per non perdere il nono posto nella classifica generale dei tennisti svedesi. E nel 1953, poiché non aveva abbandonato il sogno di giocare in Coppa Davis, partecipò sotto falso nome (Verde) al torneo di Napoli, nel quale sconfisse il tedesco Horst Hermann e fu fermato soltanto da Rolando Del Bello. Oggi, Jeppson è un tranquillo signore di 87 anni che ancora si divide tra la Svezia e l’Italia. Per la maggior parte del tempo vive qui, alle porte di Roma, ma dice di essere diventato, con l’età, un custode ancora più geloso della propria vita privata. «L’unica che mi resta — aggiunge con un sorriso cortese —, visto che dell’altra, quella di calciatore, ormai si sa tutto».
Jeppson mollò il calcio nel 1957, la sua ultima stagione la giocò con il Torino. Aveva solo 32 anni. Dice, come allora, di aver fatto bene a ritirarsi ancora giovane, «perché così si evita di assistere al proprio declino e ci si può felicemente dedicare ad altro». L’altro, da allora, è stato il suo lavoro da dirigente industriale, la famiglia — ha sposato una italiana, la napoletana Emma Di Martino — e, appunto, il tennis. Quando ha dovuto lasciare la racchetta è stato un piccolo dramma. Ma è passato. Ora il signor Jeppson gioca a golf.
Carlo Vulpio