Arturo Carlo Quintavalle, la Lettura (Corriere della Sera) 30/09/2012, 30 settembre 2012
PICASSO, L’ARTE
«L’arte astratta è soltanto pittura… L’arte astratta non esiste. Si deve sempre partire da qualcosa. Si può togliere, dopo, qualsiasi apparenza di realtà, ma l’idea dell’oggetto avrà comunque lasciato il suo segno inconfondibile». Così, nel 1935, Picasso «realista». «Che cosa credete che sia l’artista — scrive nel 1945 —, un imbecille che ha solo gli occhi, se è un pittore… no, egli è anche un uomo politico, costantemente sveglio davanti ai laceranti, ardenti o dolci avvenimenti del mondo… La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti. È uno strumento di una guerra offensiva e difensiva contro il nemico».
Sta forse in queste affermazioni la chiave per capire una vicenda altrimenti inspiegabile. Come mai un pittore di genio, longevo come pochi nella storia, creatore fecondo come nessuno prima di lui, abbia trasformato il modo di dipingere e di pensare l’arte nella società dell’Occidente. Perché Picasso, fin dagli inizi, è un artista «impegnato» e i due periodi blu e rosa, malamente contrapposti sul piano formale, coi loro «vecchi ebrei», coi mendicanti, con Célestine, con gli angosciati saltimbanchi di circhi di periferia, muovono dalle grafie di David e di Ingres ma anche da una consapevolezza civile, dalla riflessione del socialismo riformatore, quello di Proudhon.
È vero, sarà Matisse a scoprire l’arte negra attorno al 1906-07 ma è lui, Picasso, ora in mostra a Milano — un’esposizione che vale la visita — a porsi il problema delle «culture altre», e a trasformare la propria ricerca ben prima de Il cavaliere Azzurro (1912) e di molte altre avanguardie. Le demoiselles d’Avignon (1907) diventano così, da scena di una «casa» con marinai e prostitute, un dipinto che cambia il modo di pensare la funzione della pittura. Quindi l’artista inventa la scomposizione delle figure del «cubismo analitico» pensando alle foto di Marey e Muybridge ma evocando anche l’idea del tempo, della memoria, della durata, di Henri Bergson. «Si è cercato di spiegare il cubismo con la matematica, la trigonometria, la chimica, la psicoanalisi… tutto ciò non è stato che letteratura, per non dire "non senso"» dichiara nel 1923 l’artista. E proprio il cubismo di Picasso e di Braque viene ripreso in tutta Europa: dai Futuristi, su un piano formale, dagli artisti della Russia sovietica, anche dal primo Klee, e un poco ovunque da pittori e scultori fra le due guerre.
Ma intanto Picasso, che dialoga con i maggiori scrittori, poeti, artisti della Parigi di quegli anni, trasforma ancora la propria ricerca: va nel 1917 a Roma, dove inizia il grande sipario per Parade (1917), e propone un ritorno al «classico», alla figurazione, dialogando con de Chirico e Carrà. Picasso, negli anni 20 e 30, è figura guida dell’arte in Europa e negli Stati Uniti, ma arte è per lui impegno e la guerra di Spagna mette a confronto modi diversi di essere artista, i molti che si rifugiano nella propria ricerca e Picasso, che, con altri, si impegna per la Spagna repubblicana. Emblematica la storia di Guernica, il dipinto della strage nazista nel paese basco, che, dopo la Esposizione di Parigi nel 1937, andrà in esilio al Moma di New York per tornare a Madrid solo alla fine della dittatura di Francisco Franco. Un impegno che ritroviamo in altre opere importanti: La Guerra e la Pace (1952) per Vallauris e ancora Massacro in Corea (1951). «Il conflitto spagnolo è la lotta della reazione contro il popolo, contro la libertà» dichiara nel 1937 l’artista, e anche la sua iscrizione al Partito comunista nel 1944 nasce da una consapevolezza: «Ho coscienza d’aver sempre lottato, con la mia pittura, da vero rivoluzionario», dichiara allora.
Non c’è artista, fra le due guerre e nel dopoguerra, che non abbia dialogato con Picasso, da Jackson Pollock, che disegna i propri sogni evocando lo spagnolo, a De Kooning; da Max Ernst a Jacques Lipchitz; dai nostri Birolli, Cassinari, Morlotti, Vedova a Estève e Manessier in Francia; da Henry Moore a Graham Sutherland in Inghilterra. Nel 1939 Picasso dipinge La notte pescando ad Antibes, sogno di una pace presto perduta, e questo quadro, e le nature morte coi bucrani, saranno modelli per la nuova pittura europea.
Ma Picasso nel dopoguerra si isola, nonostante il consenso mondiale, e torna al dialogo con gli artisti più amati; ecco i grandi cicli dedicati al Delacroix di Le donne di Algeri (1954), al Velázquez di Las meninas (1957), al Manet del Déjeuner sur l’herbe (1960), ma è Il pittore e la modella (1964) il racconto forse più amaro, metafora della propria solitudine. Un lungo dipingere che si concluderà nel 1973 con la morte.
Il senso di un impegno che ha cambiato la storia dell’arte di un intero secolo viene forse dal finale di una pièce del 1941, Il desiderio preso per la coda: «Accendiamo i voli delle colombe contro le pallottole e chiudiamo a doppia mandata le case demolite dalle bombe». Le colombe: appunto, la pace.
Arturo Carlo Quintavalle