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 2012  settembre 30 Domenica calendario

VITA DI ITALIANI NON ILLUSTRI: CASTRENZE CHIMENTO. LA MIA ODISSEA DI BAMBINO SOLO (E BRACCIANTE)

Èun’odissea multipla, quella di Castrenze Chimento, il settantaseienne siciliano che quest’anno ha vinto il premio Pieve Santo Stefano con il terribile racconto dei primi vent’anni della sua vita. Una tragedia finisce e l’altra comincia, non si capisce come quel ragazzo, che porta lo strano nome di un martire campano, possa sopportare tanto: abbandoni, violenze, tradimenti, abusi. Non si capisce come possa resistere a tutto, scalzo, povero, solo, affamato. E non si capisce come abbia saputo scrivere queste sue memorie, da analfabeta che era, grazie al testardo desiderio di lasciare una testimonianza della sua odissea a futura memoria: un desiderio che l’ha spinto a studiare alla bella età di 72 anni e a ottenere la licenza media nel 2008, perché potesse di suo pugno fare presente «a tutte le generazioni che verranno» la sua via crucis.

È una Sicilia arcaica e brutale, quella di Castrenze, nato il 24 novembre 1935 ad Alia, un paesotto abbarbicato sulle Madonie occidentali, in provincia di Palermo. Il racconto si apre su un’immagine di felicità: «Ero vestito di bianco e vedevo in una grande estensione di terreno una villa con viali ricchi di fiore di qualsiasi genere e colore». È il giorno della prima comunione, quando «tutto era bello e guardando, era felice». Non cercate concordanze verbali o armonie sintattiche. La prosa di Chimento è irregolare, a volte astrusa, ma sorprende con aperture visionarie e vertigini impreviste. «Mi ha lasciato solo, alla deriva della mia disperazione», scrive a un certo punto, quando viene abbandonato da un garzone, che insieme con lui faceva il custode di maiali nella sperduta contrada Vacco, ai margini di una vallata.
Per la verità, alla deriva della sua disperazione, Castrenze lo è sempre stato, sin dalla primissima infanzia, quando a cinque anni l’amore dei genitori comincia a «sgretolarsi» fino alla separazione, che sarà l’inizio dello sfacelo. «Loro non pensavano alle sofferenze di noi figli e questo era il tormento di ogni giorno. Certamente sentivo che urlavano e si picchiavano con tutte le loro forze fino al punto di vedere i loro visi pieni di sangue. E noi figli che piangevamo e il nostro cuore era straziato...». Con il pensiero «divastato», Castrenze vede sua madre Angela andar via per unirsi a un ricco proprietario locale con il quale avrà altri bambini. Quando i figli di primo letto la rivedranno saranno incontri fulminei che dopo aver acceso una speranza non faranno che rinnovare le ferite dell’abbandono.
La sua vita è un continuo rialzarsi e ricadere nel fango. Quel gran bestemmiatore del padre alterna effusioni materne («quando vedeva le mie lacrime mi prendeva in braccio e mi baciava, stringendomi forte al suo petto») a sfuriate incomprensibili: «Un giorno, non ricordo il motivo, ma forse perché non lo avevo ubbidito nel comprargli un sigaro, si è infuriato e con tutta la sua forza mi ha preso per i capelli e mi ha trascinato per più di cento metri per le strade del paese, mentre io urlavo dal dolore. Sembrava un spettacolo! Pur ricordando queste cose tristi, ricordo per sfamarmi e dell’acqua per dissetarmi. Chiedeva l’elemosina per darmi da mangiare e queste son cose che non si possono dimenticare». Il racconto, oltre che dissestato sintatticamente, non è lineare sul piano cronologico. Parte dagli anni della guerra, quando arriva in paese una colonna di soldati tedeschi: «mia sorella Maria andava da loro a chiedere un po’ di cibo (...) perché io avevo fame e piangevo», e dopo i tedeschi ecco gli americani che distribuiscono caramelle, scatole di carne e biscotti. O Franza o Spagna, purché se magna? Non c’entra qui la celebre vulgata guicciardiniana che attribuiva quel motto alla mancanza di virtù civili tipica degli italiani. Che cosa poteva interessare al piccolo Castrenze che fosse la generosità dei nazisti o dei liberatori a fargli passare la fame?
Da lì si salta indietro al «ricordo buio» di una notte di settembre, forse nel 1941, quando il bambino sempre scalzo in campagna viene morso da un serpente e si ritrova su un lettino d’ospedale in condizioni disperate: «rovesciavo tempesta e veleno, puzzavo come se fosse carne morta e nessuno poteva starmi vicino». Per tre mesi non vede né papà né, tantomeno, mamma: «forse si era dimenticata di avermi partorito». C’è Dio, però, che comincia a fare capolino nelle sue visioni notturne e poi nei suoi pensieri. Si affida a lui, sempre più, da quando comincia a conoscere la schiavitù del lavoro di garzone e di bracciante, prestato a mezzadri senza scrupoli, mentre il padre viene accusato di aver rubato un montone nella proprietà dell’amante della sua ex moglie ed è costretto a fuggire con il figlio, chiudendosi in una grotta nascosta tra ulivi, mandorli e fichidindia. Sono vite da pezzenti. Devono strisciare per entrare nella cavità, dormire al gelo per terra. Se, rifugiati da amici, riescono a mangiare una pastasciutta su una pala di ficodindia, è festa. Un giorno il padre sparisce e Castrenze si chiede ancora oggi perché sia successo. Sbandato, «come una pecora senza pastore», vagherà per la campagna e dovrà subire le torture dei carabinieri che vogliono sapere da lui se il fratello nasconde armi da guerra. Prostrato, risponde di sì.
Ricorda poi che un giorno d’inverno indossa «un mezzo cappotto militare» e per questo viene massacrato di botte dal giovane Pietro che lo accusa di averglielo rubato. Ricorda di avere faticato come garzone presso un paesano, Salvatore Affeminato, che lo lascia senza cibo e che mangia di notte per non essere visto: «Quante volte piangevo e cantavo per rabbia, come un uccello dentro la gabbia». Ricorda certi freddi e certe luci della notte, quando «vedevo il mio corpo attorcigliato su se stesso e sono certo che il cielo ha fotografato il mio corpo». Ricorda di aver fatto il mendicante presso i ricchi signori del paese. Ricorda un lungo periodo in cui è stato costretto a mangiare «fave con latte e ricotta» tre volte al giorno e quant’era «bello, gustoso e dolce» il primo pane masticato dopo mesi. Ricorda di aver dovuto sottostare ai «desideri carnali» degli uomini che lo tenevano a pascolare le vacche. E la fuga un giorno di settembre del ’47 o del ’48. Camminando verso il mercato con ai piedi le scarpe con la suola di copertone d’auto, si sente solidale con le bestie che devono abbandonare il vecchio padrone per essere cedute ad altri padroni: anche lui, come quei vitelli, è stato venduto. «Questo era il nostro castigo per essere nati».
Castrenze passerà da una campagna a un’altra, come un animale, da una schiavitù all’altra, da una scudisciata a una bastonata, dai calci ai pugni di massari brutali. Nonostante tutto, aspetta sempre che sua madre ritorni, ma Angela non ritorna, sta bene con il suo amante. Una notte, steso su un pagliaio, Chimento vede più chiaro del solito: è il «viso splendente» di Gesù Cristo, «con i capelli lunghissimi e biondi che gli coprivano le spalle». Percepisce intorno a sé l’armonia e la pace dell’universo, si sente rassicurato, ma è la vita che gli impedisce di evitare gli errori, le fughe, i furti, le bestemmie. «Sei disonesto, cornuto e figlio di nessuno», gli rimprovera il signor Mario. Lui, Castrenze, non proverà rancore per nessuno, scrive che oggi se dovesse incontrare il signor Mario e tutti i suoi padroni cattivi sarebbe felice di abbracciarli senza odio: «Questo dice il mio cuore, questo dice la mia coscienza, perché sono certo che un giorno li incontrerò, nel giorno del giudizio...». Però spesso si chiede: «Perché sono nato?».

Lasciata la campagna, proverà a partire per Milano in cerca di lavoro, ma è senza biglietto e viene rimandato a casa. In paese si legherà a una donna, Maria Giovanna, «astuta, maliziosa e bugiarda, straordinariamente attraente» e «facile di sesso»: conosce il desiderio, ma a Bagheria, dove vanno a convivere, cade nel gorgo di una nuova sofferenza appena scopre di avere a che fare con una prostituta mantenuta dall’elemosina raccolta dal suo vecchio genitore. Quando scopre di essere stato tradito, è Castrenze a picchiare duro e a farla finire in un pronto soccorso. Si lascia trascinare nella rapina di tabaccherie e altri negozi, finché arriva la conversione alla fede avventista, il battesimo «come fece Gesù nel fiume Giordano», la «svolta». Il lavoro come manovale a Milano, il ritorno a Bagheria, nuove odissee solo accennate negli anni del boom economico. Nell’ultima pagina, il salto alla vecchiaia, la scuola, gli esami superati, questo diario a futura memoria: una vita che «per quanto triste possa apparire è valsa la pena di essere vissuta».
Paolo Di Stefano