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 2012  settembre 30 Domenica calendario

POLAROID DALLA PRIMA REPUBBLICA: UNA STORIA CRIMINALE CON AL CENTRO MORO - È

un’immagine che hanno visto tutti (o quasi tutti) un sacco di volte. Fa parte della storia d’Italia. La prima fotografia di Aldo Moro rinchiuso nella «prigione del popolo»; la prova che era vivo e in mano alle Brigate Rosse, diffusa quarantott’ore dopo la strage di via Fani: 16 marzo 1978, cinque agenti di scorta trucidati per sequestrare il presidente della Democrazia Cristiana. L’effigie di quell’uomo potente con la canottiera che spunta da sotto la camicia slacciata sul collo è divenuta l’icona delle tempeste attraversate dalla Prima Repubblica, la sfida più alta lanciata dai terroristi al «cuore dello Stato», come lo chiamavano. I brigatisti l’hanno persa, ma al prezzo della vita di Moro e di tante altre vittime. Lo statista democristiano resta la più famosa, anche per via dello scatto polaroid realizzato dai suoi carcerieri.
Negli anni Settanta quella macchinetta di plastica a sviluppo istantaneo, che sputava ritratti freschi di stampa, andava di moda tra i ragazzini: era uno dei regali più in voga per chi faceva la prima comunione o la cresima. Con Moro fu utilizzata per rappresentare il potere in gabbia, sotto i colpi della guerriglia. In quel caso non furono i fotoreporter a fermare l’attimo che stava imprimendo una svolta alla storia del Paese (secondo le regole non scritte della «rappresentazione della violenza», illustrate da Gianluigi Colin nello scorso numero della «Lettura»), ma gli stessi aguzzini del leader politico che, dopo 55 giorni di segregazione, l’avrebbero riconsegnato, cadavere, dentro il bagagliaio di un’utilitaria. Una storia criminale, oltre che politica, immortalata per mano degli stessi criminali che ne furono protagonisti. Secondo le loro regole e i loro obiettivi.
Su quello scatto, e sul secondo realizzato un mese dopo con l’ostaggio che teneva un giornale in mano, per smentire il falso comunicato sulla sua uccisione, si concentra il libro Le polaroid di Moro (Derive Approdi), terzo volume della storia fotografica degli anni di piombo, dopo quelli dedicati ad alcune famose istantanee degli scontri del 1977 nelle strade di Milano e di Roma. Contiene saggi e ricostruzioni sul sequestro Moro e sulla sua rappresentazione. Avvenuta attraverso le due foto (paragonate a quelle dei precedenti ostaggi delle Br, dal dirigente della Sit-Siemens Idalgo Macchiarini al giudice Mario Sossi), ma anche attraverso un fumetto postumo pubblicato sulla rivista dell’area extraparlamentare «Metropoli», subito sequestrato dalle edicole per ordine della magistratura e ora riproposto nel libro.
Ai saggi degli studiosi si affiancano giudizi e impressioni suscitate all’epoca dall’inedita, doppia raffigurazione: del leader politico, chiamato a rispondere a un improbabile «tribunale del popolo» per conto di tutti i suoi colleghi, e dell’uomo che cercò vanamente una soluzione che potesse salvare lui e le istituzioni insieme. Senza riuscire a essere ascoltato, anche in ciò che dicevano quei due scatti senza parole. Gli esponenti della Dc e del Pci ne trassero argomenti utili a sostenere la «linea della fermezza». I primi impegnati a esaltare «la figura morale di Moro» e il suo «sguardo sereno e malinconico in una circostanza tanto difficile»; i secondi a denunciare che «dietro questa immagine c’è un pugno di fanatici manovrati da forze che stanno molto in alto, probabilmente anche al di fuori del nostro Paese». Ma la foto del prigioniero fornì lo spunto anche per riflessioni meno intrise di ragioni partitiche. Come quella fulminante e definitiva di Leonardo Sciascia, che sul caso Moro avrebbe ragionato e scritto a lungo: «Che cosa ho pensato guardando quella foto? Ho pensato a un uomo che subisce violenza da altri uomini. Ho pensato che per processare un uomo di potere hanno ammazzato cinque persone senza processo. Tutto questo è atroce».
Le atrocità non si fermarono al presidente della Dc. Dopo di lui arrivarono le istantanee di altri ostaggi in catene, fino all’omicidio di uno di loro, Roberto Peci, fratello del primo pentito delle Br, ucciso mentre la solita Polaroid riprendeva la pistola che sparava e la vittima che moriva. Quasi un’anticipazione delle esecuzioni mediatiche sperimentate dai terroristi globali del nuovo secolo. Ma più di ogni altra immagine di quella turbolenta stagione, il volto smarrito e profondo di Aldo Moro, con lo stendardo brigatista sullo sfondo, resta il simbolo mai sbiadito di un enigma irrisolto. Sul destino suo e dell’Italia. Come se ci guardasse ancora, e ancora interrogasse tutti noi.
Giovanni Bianconi