Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 30/09/2012, 30 settembre 2012
LA FIAT, LA GERMANIA E IL MERCATO UNICO - I
costruttori europei non vareranno un piano comune delle chiusure delle fabbriche d’auto eccedenti. Il piano, con le provvidenze pubbliche per fronteggiare i costi degli smantellamenti, era stato chiesto dal presidente dell’Acea, Sergio Marchionne, e osteggiato dalle case tedesche. Venerdì 28 settembre, l’Associazione dei costruttori europei ha confermato Marchionne alla presidenza, ma ha deciso che ogni casa farà da sé. Nella sostanza, è passata la linea tedesca. E’ una notizia rilevante non solo per il settore dell’auto, ma per lo stesso Mercato unico.
Il Mercato unico venne costituito vent’anni fa per assicurare la massima concorrenza all’interno e aprire le economie aderenti al mondo. Quel progetto presupponeva che l’Europa, con gli Usa e il Giappone, avesse un incolmabile vantaggio economico, finanziario, tecnologico e militare sul resto del pianeta. La storia ha eroso le basi reali di quel presupposto. I Paesi emergenti, infatti, hanno assunto una rilevanza strategica del tutto imprevista dalla triade Usa, Europa e Giappone. Hanno anch’essi regimi capitalistici, ma riservano allo Stato e alle politiche pubbliche un peso molto più elevato che in Europa.
Nel disgraziato 2012, morsa dalla Grande Crisi, una parte dell’industria europea — Fiat e Psa, soprattutto — invoca il ritorno al passato, a quando l’Europa largheggiava negli aiuti di Stato e contingentava le importazioni delle auto giapponesi. Non lo dice con questa chiarezza, ma che cosa sono i premi all’esportazione e le misure contro le auto dell’Estremo Oriente? E’ una svolta, questa, che non può essere liquidata in termini moralistici in un mondo che gioca (e vince) con regole assai diverse dalle nostre. Per capirci, Marchionne non ha chiesto nulla a Mario Monti, non ancora. Ma molto ha già ottenuto dai governi americano, brasiliano, polacco e serbo. E con quei governi ha preso impegni. Liberismo e statalismo à la carte, dunque.
Scottata dall’ultima stagione della Prima Repubblica, l’Italia ha archiviato la politica industriale. Salvo dare alle fonti rinnovabili molto più di quanto non abbia mai versato alle Partecipazioni statali in tutta la loro storia. Ora, il caso Fiat riapre il discorso, al di là dei detti del suo leader. Disertare la sfida perché la Goldman Sachs vorrebbe la Fiat sempre più fuori dall’Italia, sarebbe indice di subalternità culturale alla Borsa: a una Borsa che, quando piove sulle aziende, non apre mai l’ombrello. I fondi americani comprano le azioni Fiat già in circolazione, ma dov’erano nel 2002-2005 quando bisognava dare a Marchionne i soldi per lavorare? Le loro opinioni saranno pure Vangelo per chi riduce la Fiat al suo titolo. Ma può essere questo l’orizzonte del governo?
Tra il Far West finanziario e i Kombinat sovietici c’è una vasta terra di mezzo dove i governi governano. In questo caso, per farlo, devono rispondere a tre quesiti: se il Mercato unico abbia o meno bisogno di manutenzione; dove voglia arrivare l’azienda Germania; se l’industria dell’auto italiana vada bene così com’è o se vada più articolata. Ed è chiaro che la terza risposta sarà molto influenzata dalle prime due.
Massimo Mucchetti