Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 30/09/2012, 30 settembre 2012
PERCHE’ I FIGLI DELL’ELITE METTONO IL GREMBIULE A SCUOLA
Il grembiule a scuola, ha detto qualche anno fa Mario Lodi, è una maschera ipocrita. Il vecchio maestro e famoso pedagogista commentava così il ritorno alla divisa scolastica minacciato dall’allora ministro Mariastella Gelmini. «Perché mettere un grembiule uguale per tutti quando sappiamo che i bambini sono tutti diversi? Perché nascondere le diversità, visto che ci sono?». D’accordo, ma può anche verificarsi il paradosso che un grembiule sottolinei le differenze. Come succede a Potenza, dove tre istituti hanno deciso di far indossare l’uniforme solo alle bambine, mentre ai ragazzi è concesso di vestirsi liberamente. Il che ha sollevato, nei giorni scorsi, la giusta indignazione di Antonietta Botta, presidente della Commissione regionale della Basilicata per le pari opportunità: se il grembiule serve a oscurare le differenze sociali, perché le femmine sì e i maschi no?
Dietro questa bizzarra decisione, pare che ci siano le ancora più bizzarre preoccupazioni di «visibilità» avanzate dai genitori: lo scopo sarebbe cioè quello di sottrarre le figlie agli sguardi maliziosi dei compagni di fronte a ragazzine vestite in modo «troppo» originale.
In realtà l’eterno dibattito grembiule-sì vs grembiule-no apre questioni non sempre risibili sul rapporto tra scuola e comportamento. Qualche mese fa una discussione in Francia ha affrontato esplicitamente il tema delle bambine sempre più «sessualizzate», cioè vestite già nei primi anni di scuola con abbigliamenti poco adatti alla loro età, a cui è connesso il problema di una società del consumo che sin dall’infanzia stimola il desiderio di esibire in pubblico mise griffate e all’ultima moda. La divisa divide: spazzata via nel ‘68 con il suo alone tra deamicisiano, vagamente fascista e militaresco, oggi è diventata una vexata quaestio tra chi la considera un’ottima opportunità per evitare nefaste discriminazioni sociali e chi la ritiene poco più che una nostalgica e anacronistica «toppa» di decoro in una scuola che fa acqua da tutte le parti. Altri più pragmaticamente adducono ragioni di praticità quotidiana: il grembiule evita, indubbiamente, (soprattutto) alle madri le stancanti discussioni mattutine con i bambini sulla camicetta o la felpa, sul blu o sul bianco, sul fiocco o sul nastrino da indossare per la giornata. Fatto sta che in Italia a ogni istituto spetta la scelta se imporre l’uniforme o no, e per esempio a Milano la scuola elementare Bacone, come accade altrove, mette a disposizione di tutti gli allievi, attraverso un mercatino interno gestito dall’associazione genitori, grembiulini blu a maschi e femmine per la modica cifra di 12 euro. Che poi quella modica cifra vada ad aggiungersi ad altre modiche cifre sborsate da mamma e papà per la carta igienica dell’istituto, per i fazzoletti, per il sapone liquido, per le risme di fogli A4, insomma per i materiali di uso quotidiano, è una faccenda che attiene allo stato vergognoso in cui è ridotta l’economia scolastica pubblica. Ma tant’è.
In altri contesti meno confusi (e litigiosi) le regole sono più rigide. E sempre a Milano un istituto privato d’élite come la Sir James Henderson School impone ai suoi studenti una fitta serie di obblighi che non si limitano all’abbigliamento, come del resto accade anche nelle scuole pubbliche inglesi (ma anche in Australia, Irlanda, Giappone, India) dove l’uniforme è irrinunciabile. Ma in effetti, se confrontato con le abitudini della nostra scuola pubblica, fa impressione leggere il dress code che viene sottoposto agli iscritti: non solo il vestiario uniformato (polo o felpa uguali per tutti e pantaloni, gonne, scarpe di colori tenui), ma il divieto di esibire piercing, tatuaggi, braccialetti, smalti sulle unghie, colori innaturali dei capelli eccetera. Un decalogo che non lascia margini di fantasia all’esibizione di sé e non concede spazio a nessun tipo di distrazione, alla competizione esteriore e alle differenze sociali (che per altro nelle scuole private dovrebbero essere minime). Tavole della Legge che proibiscono ogni logo esterno per esaltare un unico marchio: il Marchio della scuola ben visibile su tutte le divise. È su quel simbolo che si costruisce il senso di un’appartenenza comune. Che gli inglesi hanno e di cui gli italiani difettano. Che si debba ripartire dal grembiulino?
Paolo Di Stefano