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 2012  settembre 29 Sabato calendario

L’AMERICA SCOPERTA DA DIETRO LE SBARRE

Quando si arriva a Florence, nelcuoredell’Arizona,ipaesaggidacartolina che rendono celebre uno degli Stati più belli degli Usa sono solo un ricordo. Niente Grand Canyon, niente Monument Valley. Non ci sono né l’atmosfera new age di Sedona, né i cactus scenografici di Tucson. Solo deserto, rocce e prigioni. Florence vive da sempre di penitenziari, favorita anche dalla geografia:sescappidicella,tiattendono chilometri di terra desolata dove è difficilenascondersi.

Qualche anno fa sono arrivato a Florence per intervistare un curioso personaggio, Richard Rossi,un italoamericano che da 20 anni viveva in cella in attesa di esecuzione (Rossi, un anno prima di morire per un’epatite mal curata, ha narrato la sua detenzione in un libro autobiografico: La mia vita nel braccio della morte, TEA, 2006). Nell’attesa dell’incontro nel carcere di massima sicurezza che ospita i condannati all’iniezione letale - e in mancanza di alternative - ho visitato il museo locale, «McFarland State Historic Museum». E mi si è aperto un mondo. Ero arrivato in Arizona incuriosito dalla storia di un detenuto con il più comune dei cognomi italiani, che attendeva di morire in una località con un nome preso in prestito da una delle più belle città d’Italia. All’improvviso,in quel museo in mezzo al niente, mi sono venutiincontrovoltisicilianienapoletani che sorridevano da foto ingiallite, chiusi dentro teche di vetro insieme a vecchi rosari, immagini della costiera amalfitana,quadernidiappuntiedivise militari logore dell’esercito del Regno d’Italia. Mi ero imbattuto in ciò che resta del più grande campo d’internamentoperdetenutistranierichegliStati Uniti realizzarono durante la SecondaGuerraMondiale,quasiinteramente occupato da prigionieri italiani: all’inizio del 1944, ben 7600 soldati e 32 ufficiali nostri connazionali vivevano in cella nel deserto di Florence.

Chi erano, in quali condizioni di detenzione vivevano, perché erano là? Interrogativi finora affrontati solo in modo episodico nella storiografia italiana sulla guerra.Unalacuna coperta ora daFlavio Giovanni Conti con I prigionieri italiani negli Stati Uniti , lo studio più dettagliato mairealizzatosuunarealtàchefututt’altra che marginale. Come ha ricostruito Conti, su 125 mila militari italiani finiti nelle mani degli americani durante il conflitto mondiale, ben 51 mila furonoi nviati negli Stati Uniti dopo il 1942. Una scelta fatta dal generale Eisenhower, che non voleva gravare le forze alleate in Europa anche del compito di fare da secondini.

Fu una sorte insolita quella toccata ai prigionieri spediti in America, a «Camp Florence» e in centri di detenzione sparsi in una quarantina di Stati degli Usa. Grazie al lavoro su documentazione in gran parte inedita proveniente dagli archivi italiani e americani (in particolare dai National Archives di Washington), Conti riporta alla luce la vita quotidiana dei prigionieri, intrecciandola con le scelte politiche e strategiche sul loro destino. Ne esce il ritratto di una generazione che «scoprì l’America» attraverso la prigionia e ne rimase segnata - molto spesso in positivo - per il resto della vita. Fin dall’arrivo in nave a New York e dall’impatto con la Statua della Libertà,per quelle migliaia di soldati l’esperienza carceraria fu l’approccio con un mondo assai diverso da quello descritto dalla propaganda fascista. Strappati all’Europa distrutta e alla fame, si ritrovarono in una terra dove il cibo abbondava e i campi di detenzione erano puliti e ben organizzati. Immigrati italoamericani e sacerdoti cattolici contribuirono a farli sentire a casa, cercando nel frattempo di convincerli della superiorità della democrazia americana.

Ai nostri prigionieri, pur in tempo di guerra, l’America mostrò il proprio volto migliore, come testimoniano i racconti e le vicende ricostruiti da Conti. Un volto senza dubbio diverso da quello riservato, anni dopo, acondannati a morte come Richard Rossi.
"La storia dimenticata dei soldati internati nei campi Usa dopo il ’42, che furono conquistati alla democrazia".