Alessandro Penati, la Repubblica 29/9/2012, 29 settembre 2012
DAL 2003
a oggi, dopo la separazione da Seat Pg, Telecom Italia Media (Tim) ha accumulato perdite per 850 milioni, prima di imposte e oneri finanziari, su 2500 milioni di ricavi complessivi. L’azienda non ha quindi una rilevanza economica tale da giustificare l’interesse e l’attenzione che la decisione di cederla ha scaturito. Ma dopo anni di politica in Rai, e di Berlusconi in politica, la televisione ha una valenza che esula da considerazioni economiche.
Tutto questo però ha un costo per il Paese in termini di un’inefficiente allocazione delle risorse: come sempre, quando c’è commistione fra interessi politici e imprenditoriali.
Telecom Italia è entrata nel settore televisivo sulla scorta di due convinzioni errate: che Internet potesse diventare un canale di successo per veicolare la tv, e che le compagnie telefoniche
sarebbero state le principali beneficiarie della Rete. Invece, la diffusione del segnale avviene ancora principalmente via etere; e dove esisteva la televisione via cavo, è stata questa a diventare strumento di diffusione di Internet, non viceversa. Inoltre, è stato chi ha creato servizi per la Rete a guadagnare da Internet (Amazon, Google, EBay, eccetera), non le telecom, che si limitano a trasportare il segnale. Errori che anche altri hanno fatto. Ma a Telecom Italia ci sono voluti 10 anni, e un momento di debolezza della politica, per decidersi a vendere una controllata matura, che perde un terzo dei ricavi, e che di fronte ai 31 miliardi di debiti è, finanziariamente, irrilevante.
La commistione pubblicoprivato fa sì che decisioni aziendali come questa abbiano implicazioni politiche; e spiegano la lentezza dei processi di ristrutturazione nel nostro Paese. I costi sono ingenti, perché la crescita dipende dalla capacità di spostare rapidamente le risorse nei settori a più elevata produttività. Da questo punto di vista, la vicenda di TIMedia è simile a quelle di Alitalia, Tirrenia, Sea, o del carbone e alluminio sardo.
Per la politica, il valore di una televisione è dato da notiziari e talk show: questo fa di La7 un pezzo pregiato. Ma chi investe nella tv commerciale guarda esclusivamente alla raccolta pubblicitaria, unica fonte di ricavi. Sorprende dunque che ci siano compratori interessati visti i conti dell’azienda e le prospettive dei consumi, e quindi della pubblicità in Italia, unico tra i Paesi industrializzati ad avere un reddito disponibile reale pro capite inferiore a quello di 15 anni fa.
La maggior parte del valore TIMedia di sta infatti nel diritto a utilizzare le frequenze, e nel posto assegnatole sul telecomando. Altri due esempi di allocazione inefficiente delle risorse, questa volta da parte dello Stato. L’utilizzo dell’etere, un bene pubblico e scarso, avrebbe dovuto essere messo all’asta, lasciando ai compratori la decisione su come meglio utilizzarlo. Invece, lo Stato
lo ha regalato alla tv commerciale, facendone un “diritto acquisito”. La moltiplicazione delle frequenze, grazie all’avvento del digitale terrestre, ha visto ancora le tv privilegiate da considerazioni politiche. Così, oggi abbiamo decine di canali tv che nessuno guarda, e Mediaset che ha usato il digitale per crearsi la sua tv a pagamento e contrastare Sky. Con il risultato di una penuria di preziose frequenze disponibili per Internet via telefono, che frena le potenzialità di
smartphonee tablet.
Molto del valore di TIMedia dipende dunque dalle sue frequenze che domani potrebbero essere usate per la telefonia.
Stesse inefficienze per il posto sul telecomando, che vale molto per via di abitudini consolidate; e diventato un altro “diritto acquisito”. Un regalo in più a chi aveva già ricevuto gratis le frequenze. Per i nuovi arrivati, TIMedia diventa dunque un biglietto da pagare per una posizione favorevole sul telecomando. Lo Stato avrebbe dovuto mettere all’asta anche questo: avrebbe favorito la concorrenza, e sarebbe stato un modo per tassare le rendite di monopolio di chi quel posto, e le relative frequenze, non ha mai pagato e usa gratis.