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 2012  settembre 28 Venerdì calendario

MIO ZIO FACEVA ARRABBIARE GANDHI


Da quattordici generazioni, è lui il primo membro di questa aristocratica famiglia indiana ad aver scelto di lavorare (tra New York e il mondo). A Calcutta, i Tagore, hanno sempre vissuto di rendita, nel più grande agio, merito del loro antenato Dwarkanath, un imprenditore che aveva una fabbrica di rimorchiatori a vapore e possedeva anche miniere (oltre a essere un favorito di Queen Victoria). Così tutti i componenti di questo grande clan potevano dedicarsi senza preoccupazioni a ciò che amavano di più. Scrivere, poetare, fare musica, dipingere, meditare, studiare matematica e filosofia. E questa è una vera dimensione del lusso, una qualità di tempo non vacua. Sundaram ha scelto trent’anni fa il mondo dell’arte, arrivando ad aprire cinque gallerie nel mondo, l’ultima pochi giorni fa a Singapore, città in ascesa nel Sudest asiatico. Ma niente di nuovo nella famiglia Tagore, dove l’arte da sempre fa parte del suo tessuto connettivo. Una disciplina che anche Rabindranath Tagore, Premio Nobel per la Letteratura nel 1913 (il primo non europeo a ottenerlo) aveva ampiamente praticato in epoca modernista. Amava distinguere però le due vocazioni: «La poesia è per i miei connazionali, i miei dipinti sono invece un dono per l’Occidente». E doveva essere vero, tanto che Sir Michael Sadler, scopritore del pittore Francis Bacon, ne rimase molto affascinato. Suo mentore in Inghilterra per la poesia fu invece un altro poeta, l’irlandese William B. Yeats. Entusiasta di quel talento “esotico”, scrisse la prefazione al Gitanjali di Tagore, il libro di poesie che ebbe dieci ristampe, ancor prima di ricevere il Nobel. Fu un grande successo, declinato in varie traduzioni, firmate da blasonati scrittori tra cui André Gide e Boris Pasternak. Un libro nato sull’ala di un piccolo miracolo. Tagore, arrivato a Londra dall’India nel giugno 1912 con una raccolta di cento poemi, perse quel fascicolo nella metropolitana di Londra. Ma qualcuno, trovandolo, lo portò all’ufficio degli oggetti smarriti. Di questo poema, Gandhi preferiva in assoluto la strofa 39: «Quando il cuore è duro e inaridito, vieni su di me con una pioggia di misericordia».
«Rabindranath era il capofamiglia e quando mio padre Subho perse il genitore, lui gli fece da padre putativo», dice Sundaram, 51 anni. Dopo le scuole in India, altri studi lo hanno portato prima in un college dell’Ohio e poi Inghilterra, a Oxford. Mentre la vita lo ha fatto riatterrare negli Stati Uniti, a New York, dove per anni ha lavorato nella nota galleria Pace Wildestein. Fino a prendere la decisione di mettersi in proprio, e allora ecco le gallerie a New York, Beverly Hills, Hong Kong. Lui fu il primo ad aprire una galleria satellite a Hong Kong, in anticipo su Gagosian. E proprio in questa città, da qui al 2026, si apriranno imponenti scenari per l’arte, con uno sviluppo accelerato.
Il master plan concepito dall’archistar Norman Foster strapperà al mare 23 ettari da costruire. Nel nuovo distretto culturale West Kowloon nel 2017 aprirà il museo M+, su un’area di 60mila metri quadrati. Intanto il 7 ottobre la casa d’aste China Guardian inaugura la sua sede e Art Basel avrà una fiera gemella dal 2013. Ma Singapore, da tempo, si è dotata di un porto franco, il più grande del mondo (libera zona doganale dove le opere d’arte vanno e vengono per la felicità finanziaria dei mercanti). «Singapore è un centro di snodo nel Sudest asiatico per viaggiatori dall’Indonesia, dall’India e dall’Australia. La situazione politica è stabile e le imposte sono basse. I grandi magnati sono corteggiati dal governo locale, che ha creato in breve tempo un ampio distretto per l’arte. Dove noi ci siamo insediati per primi, con questa galleria. Bisogna immaginarsi Singapore come una sorta di Svizzera, molto pulita e molto verde», dice Tagore.
Questa art-zone di Singapore, Gillman Barracks, è un progetto di riconversione di quella che fu la roccaforte del primo battaglione britannico del reggimento del Middlesex, comandato da Sir Webb Gillman nel 1927. Ora qui si trovano gallerie e atelier per residenze d’artista. Un mondo dell’arte sempre più in crescita, e appiattito sulle coordinate del mercato. «Prima la parte economica e quella puramente artistica erano separate. Ma le frontiere tra le due si sono dissolte, la finanza si è rivolta all’arte. Tutti oggi accettano questo sistema, anche i musei, ben sapendo che le donazioni arrivano da questo circuito». A Sundaram Tagore interessa lavorare con quegli artisti che hanno anche forti radici locali, ma soprattutto una personalità cosmopolita, come Anish Kapoor. «Anche in passato ci sono stati artisti “globali”, come Gauguin, per esempio, che da Parigi decise di trasferirsi a Tahiti. Picasso ha guardato all’arte primitiva, Matisse all’arte islamica», afferma.

Eredità ineludibile. Sundaram ricorda con molto piacere il suo “passaggio in Italia”, studente ventenne, grazie a una borsa di studio alla Peggy Guggenheim di Venezia. «Un piccolo grande museo che mi ha insegnato molto in materia di museografia. In Italia vengo ancora spesso, ma in realtà sono sempre in movimento tra i continenti, ho visitato non meno di settanta Paesi. È vero che nella nostra grande famiglia, molto molto unita, che viveva nello stesso palazzo, nessuno ha mai lavorato, ma in realtà abbiamo svolto per secoli un altro grande “lavoro”, quello di formare una coscienza sociale, aiutando le classi povere. Ritengo che la mia famiglia abbia dato molto spiritualmente all’India», dice Tagore, che nella sua collezione privata ha sette dipinti del suo antenato. «Hanno un grande valore affettivo, e sono patrimonio nazionale. Alla sua epoca, Calcutta era la seconda capitale, dopo Londra, del British Empire (dal 1772). C’erano scambi continui con l’Europa. Molta arte antica e del 900 finiva nei palazzi dei Maharaja, io ricordo di aver visto perfino un Rubens in uno di questi».
Ma il cognome Tagore è ancora ricordato, ovunque, come un tempo? «In India, sicuramente. In Occidente non molto, ma avendo io scelto di vivere in questa parte del mondo, ciò semplifica le cose. A volte scambiano il mio nome, Sundaram (che vuol dire “bellezza”), per il mio cognome. Peraltro io mi chiamo così in omonimia con la rivista d’arte che mio padre (militante in un gruppo di pittori dell’avanguardia) fondò e diresse nel ’50. Per tutta la nostra famiglia il cognome Tagore è un’eredità importante, siamo coinvolti nella straordinaria storia di questo letterato, che definirei un umanista rinascimentale, i cui interessi spaziavano in ogni campo e che creò l’università di Shantiniketan nella quale accolse Gandhi quando arrivò dal Sudafrica. A lui non importava di che religione o da dove provenissero le persone, per lui era importante esercitare nella vita la compassione e la creatività, con lo scopo di restituire qualcosa alla società», dice il gallerista. Ma nel popolatissimo Bengala (250 milioni di persone) ancora oggi, tutti, anche gli analfabeti, conoscono a memoria almeno un verso dei poemi e delle canzoni di Tagore (ne scrisse 2.500).
Un’adorazione di massa che continua incessante con le visite al palazzo che fu abitato dal Premio Nobel. «Sì, ma le autorità avrebbero dovuto conservare meglio il luogo, mentre, anni fa, hanno abbattuto un edificio, lasciandovi un prato», dice il gallerista, che – essendo nato nel 1961 – non ha conosciuto Rabindranath, figura circondata da un’aura di “santità”. Le cronache dell’epoca ricordano manifestazioni di feticismo popolare ai funerali di Tagore nel 1941. Le persone al seguito del corteo si spintonavano per strappare ciuffi di capelli e farne una reliquia. E nel momento in cui il suo corpo si consumava sulla pira, prima che tutto s’incenerisse, alcuni seguaci oltrepassarono i cordoni di sicurezza per racimolare brandelli di ossa. Ma anche proferire il nome del poeta poteva sortire effetti taumaturgici impensabili. Così accadde che, nella Prima guerra mondiale, un soldato Gurka dell’armata inglese, fatto prigioniero dai tedeschi, necessitasse di un’amputazione a una delle due gambe ferite. Ma né il medico tedesco né il soldato, terribilmente spaventato, potevano capirsi. Fu così che a un sergente tedesco venne in mente di avvicinare il prigioniero e tranquillizzarlo pronunciando il nome di Tagore, per confortarlo nelle cure.

Gropius e Munch. La Indian Society of Oriental Art di Calcutta, nel 1922, organizzò la prima mostra extraeuropea del Bauhaus, scuola di architettura e di design, fondata da Gropius nel 1919, a Weimar. Quel clima di “avventura culturale”, che innescava nuovi processi nella società proprio a partire dalle arti, rispecchiava l’apertura intellettuale professata in India da Rabindranath Tagore. Molto interessato anche all’avanguardia europea del ’900 (Kandinskij era suo amico, di Munch collezionava opere). Tutto s’iscrive nella sua azione per un incontro paritario tra Oriente e Occidente. Fu con questo stesso spirito che Tagore, tra il 1918 e il 1921, creò a Shantiniketan un’università per la quale coniò un motto in sanscrito: «Dove tutto il mondo è riunito nello stesso nido».
«Qui studiò anche Gandhi, e poi anche la futura Indira Gandhi. Fu il mio antenato a dargli, nel 1919, l’appellativo di Mahatma, grande anima, mentre Gandhi lo chiamava Gurudev, grande uomo», dice Sundaram. «E lì ho studiato anch’io, dormendo nello stesso letto che fu di Gandhi. Nel campus si studiavano materie umanistiche, storia, religione ma anche musica e architettura. A Shantiniketan insegnò negli anni Venti anche un professore italiano, Giuseppe Tucci, esperto di induismo e di buddismo».
L’India degli anni 50 vide nascere anche il grande progetto urbanistico della città-ideale di Le Corbusier, Chandigarh, nel Punjab, voluta da Nehru. «L’architettura è a tutt’oggi una mia passione», dice Sundaram. «Conosco bene le opere di Scarpa, di Nervi e di tutte le principali archistar, ma trovo sempre affascinante il palazzo del Parlamento del Bangladesh a Dacca, costruito da Louis Khan nel 1982, una sorta di Taj Mahal contemporaneo, che ha dei chiaroscuri piranesiani». Gallerista ma anche filmmaker, Sundaram, finora non ha voluto raccontare in un documentario la storia della sua famiglia e di Tagore. «Ci ho pensato, ma sono troppo coinvolto, nessuno rimarrebbe soddisfatto. Certamente lui è un soggetto straordinario per un film. Era una figura davvero rinascimentale, era un uomo di larghe vedute che rigettò il nazionalismo a favore dell’internazionalismo, ma non giustificava il potere coloniale di un governo inglese che aveva disatteso le aspettative di un’India poverissima, che lui sognava libera da ogni giogo. Fu il primo femminista della storia, e per giunta in epoca vittoriana, questo lo dimostrò anche scrivendo diversi libri che ne sposavano la causa». Aprì così un solco nel quale si sarebbe inserita poi subito la giovanissima e bella pittrice (metà indiana e metà ungherese, con studi all’Ecole des Beaux Arts di Parigi), Amrita Sher-Gil, che, una volta ritornata nel suo Paese, nel 1934, diventò l’icona del femminismo.

Scontro tra titani. Molto ci sarebbe da raccontare anche sull’incontro tra le due maggiori figure di quel tempo, Tagore e Gandhi, diverse e complementari. Mistici, ma in modo diverso, si sentivano entrambi ispirati da questo verso sacro delle Upanishad: «Tutto è in movimento in questo mondo che cambia, sappi che tutto è avvolto da Lui, che è il Signore di tutte le cose».
Ma lo scontro tra loro fu inevitabile, dovuto ai caratteri e alla loro visione del mondo, agli antipodi. Tagore visus Gandhi era il profeta della bellezza contro l’asceta, l’artista verso l’utilitarista, il pensatore contro l’uomo d’azione, l’individualista contro il politico, l’elitario contro il populista, il modernista contro il reazionario, l’infervorato della scienza contro l’anti-scienziato, il viaggiatore contro il sedentario. Questo si legge nell’attenta analisi fatta da Krishna Dutta e Andrew Robinson nel libro Rabindranath Tagore, the Myriad-Minded Man (edito da Bloomsbury, 1995) in cui si afferma che Tagore aveva dato all’India strumenti culturali per assimilare l’Occidente senza diventarne lo zimbello, mentre Gandhi, sciovinista, non era interessato a questa assimilazione, sostenendo che l’Occidente dovesse diventare simile all’India del passato. Oggi la globalizzazione ha spostato la questione su ben altri livelli. Nel 1920 Tagore quasi anticipò questo fenomeno, quando fece il primo passo per creare un movimento pan-asiatico. «Il dialogo culturale è fondamentale e sprigiona energia, ma oggi l’intolleranza sta crescendo. Se qualcuno ha opinioni diverse sembra non avere diritto di esistere, mentre Tagore praticando la compassione insegnava ad accettare l’altro. Questo è un punto di vista dinamico, creativo, con sfumature di colore», dice Sundaram. Per Rabindranath la forza motrice fu la meditazione. «Per lui era una pratica costante, iniziava alla mattina presto. Ogni giorno si chiedeva che cos’era vero e giusto. Queste domande strutturano la vita. Io non riesco a meditare in modo rituale. Una tecnologia invasiva e pervasiva e l’estrema facilità di viaggiare da un luogo all’altro del mondo hanno ridotto tutti gli spazi di riflessione, che invece andrebbero recuperati». La lezione di vita che Tagore ha trasmesso al suo discendente è presto detta. «L’importanza di valutare le persone a partire dalle loro idee e non da ciò che possiedono. Di certo le sue idee hanno modellato il mio desiderio di esplorare e di rafforzare il legame tra Oriente e Occidente, cosa che metto in pratica come gallerista. Se fosse ancora vivo gli chiederei dove ha trovato questa inesauribile ispirazione da riversare nella creazione».
Tagore è comunque una figura che appartiene a tempi eroici. «Sì, sicuramente, allora ci si preoccupava molto per la comunità e c’erano grandi ideali, pressoché scomparsi nella globalizzazione. Prima c’erano i governi che controllavano la società, oggi invece ci sono alcuni soggetti che la controllano finanziariamente. E per colpa di troppo individualismo non si aiuta più il mondo».