Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  settembre 28 Venerdì calendario

LESSICO FAMILIARE IN CASA BIAGI


Il mostro sacro visto sul divano di casa. Non dal buco della serratura, piuttosto nell’intimità di chi trascorre qualche rara serata tranquilla con lui. E, soprattutto, fin dai tempi del tirocinio, quando lui mostro sacro ancora non era. Casa Biagi è la vita di Enzo, un grandissimo giornalista, uno di quei pochi che hanno segnato la storia della stampa italiana nel Novecento, ma anche quella della sua famiglia, a partire da Lucia, sua moglie («le gambe più belle di Bologna»). Ora viene raccontata e ricordata – con un gran lavoro di raccolta e ricostruzione – dalle due figlie, Bice e Carla. In una chiave esplicita fin dall’ammiccamento del titolo. L’allusione a Casa Vianello: anche qui, in effetti, circola spesso una vena d’ironia, dolce, comprensibilmente nostalgica, intelligente. A partire dal rapporto di Enzo con la madre, lei, una “donnina indipendente”, lui, uno il cui motto era: “Non fatemi passare per cretino”. Raccontano le figlie: «Sua madre ci provava. Gli rifilava il whisky e il cognac fatti da lei con le polverine, travasati nelle bottiglie originali, per rivelargli l’inganno, sogghignando, solo dopo che lui s’era fatto un goccetto… I loro scontri finivano immancabilmente con lei che cantava le lodi al Signore e lui che sbatteva la porta e non parlava per un paio d’ore. Forse è per questo che, quando la gente esalta la pacatezza di nostro padre, ci scappa un sorrisino».

Un saltimbanco a Milano. Nel libro c’è la vita dei giornali, a partire da quando in tipografia si faceva tardi davvero la notte e quando i giornalisti, nella società, erano visti più come attori – meglio ancora: saltimbanchi – che come professionisti rispettabili. Coi primi viaggi verso Milano – quando Biagi è chiamato a Epoca – verso una cameretta divisa con Alberto Cavallari, e verso una città «che gli sembrava in bianco e nero, buia, cupa, malinconica». Compaiono personaggi leggendari o memorabili. Giancarlo Fusco che, quando nasce Anna, la terzogenita – scomparsa poi nel 2003 – riesce a dire soltanto: «Dio, che impressione. Enzo piccolo nella culla». Oppure Oriana Fallaci, con cui il rapporto di Biagi sarà affettuoso ma mai felicissimo, tanto da riferire a casa: «Se a New York la invito a cena, mi tocca pagare il conto perché è una signora… Poi il giorno dopo diventa una collega e cerca di fregarmi un’intervista». C’è l’intermezzo romano alla Rai, per guidare il telegiornale. Un piccolo trauma per le ragazze: «La nostra vita romana era separata da quella dei grandi, orari e abitudini diversi, per noi ancora quelli nordici, per i genitori pranzo alle due e cena alle dieci, anche se papà continuò, come a Milano, a presentarsi in redazione alle nove del mattino». E poi la grande stagione rizzoliana, con Biagi protagonista della scena giornalistica nazionale. Le grandi rotture, come quando torna al Resto del Carlino, il giornale dove, nell’immediato dopoguerra, uscendo dall’esperienza partigiana, aveva cominciato la carriera: «Tra me e i miei editori c’è sempre stato un politico di troppo. Sono sicuro che sul mio allontanamento dal Resto del Carlino l’onorevole Luigi Preti abbia messo una buona parola…». Il Corriere, dove Biagi approda nel 1974, quando Montanelli sta preparando l’uscita verso il Giornale: «Ho vissuto con Indro i giorni del distacco: mi disse che, al momento di congedarlo, Piero Ottone aveva pianto. Poi decise di fare un quotidiano suo e io lo sconsigliai. Mi pareva un’impresa folle…». E la Repubblica, che lascia nel 1989, già angustiato da problemi di salute: «Venne fatto il bilancio degli articoli che in quell’anno avevano contato e, di conseguenza, rafforzato l’autorevolezza di Repubblica: risultò, incredibile ma vero, che io non avevo fatto niente. A questo punto per me era diventato impossibile rimanere. D’accordo, posso essere permaloso e orgoglioso, ma se non servo, se non ne imbrocco una, che cosa ci sto a fare in un giornale?». Le memorie familiari si intersecano con citazioni di discorsi casalinghi e articoli o libri celebri. Fino alle polemiche grevi e odiose nell’ultima parte della carriera: il fatidico “editto bulgaro” pronunciato il 18 aprile 2002 da Silvio Berlusconi: «Papà diceva di sé: “Non sono fazioso ma sono sicuramente partigiano”». Ma, prima, si ricorda la fulminante battuta durante un incontro dei coniugi Biagi con Silvio. Il quale disse alla signora: «Ho corteggiato suo marito più di una bella donna, ma inutilmente». E Lucia, gelida e sintetica: «Si vede che lei non è il suo tipo».

Memorie emiliane. Nel libro c’è anche tanta vita quotidiana, coi suoi luoghi nonché le sue gioie e i suoi drammi, c’è la crescita dei figli, i grandi e piccoli cambiamenti nella società italiana, gli usi e le memorie delle origini emiliane. La prima volta che le figlie vedono il padre “ vulnerabile”, dopo una spalla rotta per uno scivolone alla Stazione Centrale, nel ’57. I conflitti, anche privati, negli anni “della contestazione”: «Ogni volta che ci sedevamo a tavola, papà cominciava la sua predica e la Carla si alzava senza mangiare. Le dedicò anche un articolo sul Corriere dove la prendeva in giro chiamandola affettuosamente Rosa Luxemburg». Oppure, la favola di Pianaccio, Appennino tosco-emiliano, terra d’origine degli avi e residenza ancora di parenti, coi suoi personaggi, a partire da Olga, cugina della nonna, elegante titolare dell’ufficio postale. E il lungo sodalizio con Sergio Zavoli: «Nostro padre viveva i suoi ultimi giorni quando seppe che il suo amico aveva avuto un piccolo malore in Senato. Con voce affaticata ma nello stesso tempo decisa, dal letto della clinica volle parlargli. Più che altro ordinò alla Bice di comporre il numero, dato che era un esercizio a lui sconosciuto da sempre… “Ti devi riguardare, Sergio, altrimenti vengo a Roma e mi occupo io di te”. Non ce ne fu il tempo». È la fine. Dopo che il “nonno” – come gli intimi erano avvezzi a chiamarlo – indebolito si era dovuto affidare alle figlie. Di certo, in quegli ultimi tempi «forse un po’ si rompeva le palle di avere le “bimbe” alle costole». Loro, che non si appassionavano a discutere di palinsesti, non conoscevano la classifica della Serie A, ma che l’hanno saputo raccontare così bene.