Valentina Vitale, Sette 28/9/2012, 28 settembre 2012
COSÌ GLI ITALIANI DIVENTANO CLANDESTINI A NEW YORK
Arrivano come turisti, poi, dopo 3 mesi, neanche se ne accorgono e diventano clandestini.
Sono in tanti a New York City, si trovano nei ristoranti, nelle pizzerie e nei cantieri. Hanno due nomi: uno vero e uno falso. Quello falso si procura facilmente. Sono gli ispanici delle vie del Queens che forniscono per circa 100 dollari, i “papeles”: il social security number (numero di previdenza sociale) e la carta d’identità.
Hanno le braccia segnate dalle bruciature delle padelle, strisce sottili, tante, scure. Lavorano duro, tutto il giorno, tutti i giorni. All’inizio hanno un solo giorno libero e non hanno il tempo di divertirsi, serve appena per riposarsi e ricominciare con il ritmo frenetico della città che non dorme mai.
Guadagnano dagli 800 dollari in su a settimana, parte in nero, il resto in assegno, perché sono “out of boat” (“fuoribordo” o clandestini) anche se pagano i contributi allo Stato. E così il sistema dell’illegalità si regge da sé e nessuno si lamenta. Hanno occhi azzurri, puntati verso il cielo. Che sembra più alto a New York City.
Al bazar delle carte d’identità. Lei, capelli biondi, corpo atletico, non mi guarda negli occhi – «qui a New York è difficile capire di chi puoi fidarti» – seduta su un tavolino del ristorante dove lavora. Chiede al collega un gin. È a NYC da 8 mesi e ha già cambiato lavoro 5 volte: «L’ultima il boss mi ha detto: io ti prendo anche senza documenti, ma tu devi fare la brava, perché sai… se poi accade qualcosa… che uno ti tocca o ti mette le mani dove non ti piace, tu chiami la polizia, la polizia viene e ti chiede i documenti e tu sei clandestina… e poi te la passi brutta tu. Così m’ha detto!», ciondola le sue gambe lunghe mentre mi racconta, «non so dove volesse arrivare ma non mi è piaciuto. E me ne sono andata».
Ha appena finito il turno, sono le 2 di notte, ha iniziato alle 3 del pomeriggio. Ha le braccia segnate dalle scottature Valeria, fa la cameriera ma il suo sogno è ballare in un musical a Broadway. Ballare è l’unica cosa che la fa sentire bene, di giorno non ha tempo e allora danza la notte, per ore, davanti allo specchio quando, dopo il lavoro, torna nella sua stanza in subaffitto.
È venuta a NYC per amore, sono passati tre mesi e senza accorgersene si è ritrovata clandestina: la storia d’amore è finita, il ragazzo l’ha buttata fuori casa, e lei, 27 anni, con un inglese che parla a stento, ha deciso di restare. Tanto in Italia non ha costruito nulla e non ha nulla da perdere.
«A New York c’è tutto. Tranne il mare, quello dove puoi farti il bagno, mi manca…», le si riga il volto di lacrime ma fa finta di niente, e continua a parlarmi delle vacanze estive che la sorella farà, «e mi manca la libertà di poter vedere quando voglio mia sorella».
Se non fosse per il senso di colpa che la tormenta ogni volta che ricorre a un espediente illecito, neanche si accorgerebbe di essere illegale. «Domani sera vado a prendere i miei nuovi documenti da un messicano, mi aspetta all’uscita della metro». Sui marciapiedi di Roosevelt Avenue, via della periferia del Queens, gli ispanici richiamano l’attenzione dei passanti, bisbigliando «social number, social, social number». Gestiscono un vero e proprio mercato di documenti falsi, patenti, carte di identità, tessere della previdenza sociale e passaporti. Il prezzo si contratta, la cifra varia tra gli 80 e i 150 dollari per la carta d’identità e il “social number” (equivalente del codice fiscale), 120 per la patente, 700 per il passaporto, occorre portare le fotografie e in 2 ore i documenti sono pronti. «Me li ha chiesti il boss e mi ha pure suggerito a chi rivolgermi. Per lavorare servono, altrimenti non ti prende nessuno», spiega Valeria, «consigliano di mettere un nome falso, io mi chiamerò Aurora. Insomma, rinasco. Indipendente stavolta».
New York è il luogo dove si può nascere ancora, e questo per lei vale molto di più della libertà. Valeria ha scelto di restare anche se gli americani non le piacciono. Non le piace la gente che cammina in un modo che in Italia chiamiamo correre e le sbatte addosso senza chiedere scusa, il caldo dei sotterranei e il gelo dei vagoni della metropolitana, i bibitoni con le cannucce, che pare che la vita gli americani la succhiano a piccoli sorsi piuttosto che immergersi dentro, sbrodolandosi anche un po’, come fanno la maggior parte degli immigrati che arrivano da queste parti.
Camminiamo insieme verso il suo appartamento – «Lo senti? Non ti dà fastidio?» – è il rumore di sottofondo a cui gli italiani non si abitueranno mai. E così lei, come tutti i clandestini, non riesce a dormire più. E non è solo un modo di dire.
Lasciate ogni speranza voi che uscite. L’ho incontrato a Times Square, alle 4 di notte, lavorava in un cantiere, è operaio, odora di catrame, parla inglese con un forte accento siculo, ha 47 anni, è clandestino da 20. Non è mai uscito dalla città. Una rosa tatuata sul braccio con un nome che si arrampica tra le spine: Rosalia. È la madre, le manda ogni mese, da 20 anni, 800 dollari, e la chiama tutti i giorni via Skype «e ogni volta mi fa: quando torni Carmelo mio?». Sa bene che non la potrà vedere mai più perché ha 87 anni e pochi giorni di vita.
Carmelo non ha soltanto carta d’identità e social number falsi, come tutti i clandestini, ma da un giorno anche il passaporto falso. «Devo comprare una valigia. Non ne ho. Non ho mai fatto una vacanza», solo all’idea Carmelo ride come un bambino. «Con questo vado in Messico a ottobre. Passerò il confine via terra, non rischio, all’aeroporto potrebbero accorgersi che non è il mio, sono più rigidi lì». All’aeroporto la polizia federale lo metterebbe immediatamente sul primo volo, niente eccezioni, niente tempo per i saluti.
Simone è arrivato al JFK Airport a dicembre 2008 sapendo già che quel volo di ritorno non lo avrebbe mai preso. Il biglietto sgualcito dal tempo lo conserva, assieme a tutti i suoi oggetti personali; non ne ha molti, quelli che entrano in una scatola di scarpe. La scatola è nell’armadio, dentro, tre pantaloni neri e tre maglie, nere, identiche. È tutto ciò che ha. È fuggito dall’Italia, da 60 mila euro di debiti e dal peso di non aver potuto aiutare i genitori. Avevano un’azienda tessile a Prato, che non è riuscita a fare il salto di qualità e si è persa nella morsa cinese fino a fallire nel 2007. Intanto Simone, proprietario di un ristorante, finiva nei guai con il fisco. La sua attività è durata 8 anni, ma poi, complice la crisi economica, gli affari hanno iniziato ad andare male e la città di Prato, che tanto ama, è diventata per lui, all’improvviso, troppo piccola. Nel 2008 è stato costretto a chiudere e a lasciare l’Italia cambiando vita, prospettive e anche la sua identità. Si chiamava Simone in Italia, ora a New York City ha un altro nome, ed è clandestino.
La polizia di NYC non ferma la gente per strada a chiedere i documenti, ma ciò che lo stanca è vivere nell’ansia di sapere che non potrà affrontare l’imprevisto. «Ho visto un ladruncolo in metro, stava sfilando il portafoglio dalla borsa della ragazza accanto a me, il primo istinto è stato intervenire ma mi sono frenato», è sufficiente essere coinvolti in un litigio per ritrovarsi di fronte alla polizia federale. E allora non c’è più scampo. La deportazione è immediata. Ma a questo Simone non vuole pensare, è fiducioso, dietro le spalle ha tatuato Ganesh, che rimuove gli ostacoli dal suo percorso di vita.
Quando parla, quel simpatico fiero toscano, sporge un piercing sulla lingua, lo ha fatto qui, in un giorno di noia. Ci si annoia anche a NYC, nonostante il lavoro che non lascia neanche il tempo di fare l’amore. Ha 37 anni, gli stessi segni scuri sulle braccia di Valeria, fa lo chef. Guadagna in nero 800 dollari a settimana. «Qui con una settimana di lavoro mi pago l’affitto della stanza dove vivo ad Astoria, 750 dollari, e parte dell’abbonamento metro mensile, 110 dollari. E il resto, 3 settimane di lavoro, le metti da parte! Questo non è possibile in Italia». L’unica cosa che conta per Simone è lavorare.
Il suo progetto è diventare chef privato, per guadagnare molto di più, velocemente, e sanare così la sua situazione in Italia. Il suo obiettivo è tornare. «Finché sei illegale i datori di lavoro ti sfruttano, una volta ottenute le carte per restare allora ti si spalancano le porte». Allora potrebbe crescere professionalmente, ma per farlo ormai che è illegale ha solo una soluzione: sposarsi. Sta cercando una moglie Simone, non importa quanto attraente, quanto feeling ci sia. Unico requisito: cittadinanza americana.
Il matrimonio come perdono. Quando un clandestino trova una moglie, New York lo perdona della truffa commessa e non ha più importanza da quando è illegale, immediatamente l’out of boat sale in barca, ottiene la mitica Carta Verde e la sua esistenza diventa realtà. Le nozze a NYC sono un procedimento veloce. Ci si presenta a City Hall, la più grande fabbrica di matrimoni, con pochi accorgimenti. Il numero uno è “Make sure your partner is with you”, ossia il futuro sposo deve essere presente alle nozze. Il secondo è ricordarsi di pagare la tassa di 35 dollari. “That’s it”, è tutto. Dopo 24 ore si ha la licenza per sposarsi nello Stato di New York. Dalla porta girevole al 141 Worth Street di Manhattan escono con velocità accelerata le coppie unite nel sacro vincolo del matrimonio: tante omosessuali, ma tante di più quelle con sposi mal assortiti che basta uno sguardo per riconoscere la “convenienza”.
Giorgio ha due fedi, una alla mano destra e una alla sinistra, due matrimoni, uno per ottenere la cittadinanza e uno per amore, uno finito e uno no, ma entrambi degni di fede. Senza il primo non avrebbe mai potuto trovare il secondo, l’amore vero. Il primo matrimonio fu nel 1989, aveva 27 anni, lo pagò 7 mila dollari, in 2 anni ottenne la Green Card e poté così restare a lavorare negli Usa e far carriera, in 3 anni il divorzio. Giorgio è product manager. Da qualche anno fa lunghe trasferte a Milano, dove ha incontrato la donna della sua vita «e ora passo la residenza a lei». Effetto domino.
«La prima? E chi l’ha più vista? Neanche la prima notte di nozze c’è stata, se l’è fatta con i miei due vicini. Mi aspettavo un mostro, invece quando me l’hanno presentata ho pensato: almeno consumo! Siamo andati a City Hall e tutti ci guardavano, eravamo davvero una coppia credibile noi». Non è difficile trovare una moglie a NY e neanche costoso. Gli stessi ispanici, che gestiscono il mercato dei documenti falsi, per circa 10 mila dollari procurano un coniuge. Cosa non facile è superare i colloqui per convincere l’immigrazione che il matrimonio è avvenuto per altre ragioni dall’ottenimento della Carta Verde.
Il paradosso dei “fuoribordo”. Sono molti quelli che sposerebbero un italiano solo per aiutarlo a ottenere la residenza. Diana, capelli gialli, tinti, quasi a spazzola, colleziona cittadinanze. È al quarto matrimonio. Un americano, un taiwanese, il terzo un brasiliano che sta aspettando il ricongiungimento familiare, e poi lei potrà chiedere il divorzio e sposare così il coinquilino italiano. Ma non si fa pagare Diana. «A loro do la mia cittadinanza e loro mi danno la loro. È uno scambio». E lei ottiene così il permesso di vivere dove vuole nel mondo. Gli americani non si considerano cittadini di serie A e non considerano gli extracomunitari cittadini di serie B, come succede in Italia. Infatti non esiste una parola dispregiativa come “clandestino”, piuttosto utilizzano l’appellativo “fuoribordo”. La grande barca è NY, gli immigrati regolari che sono a bordo sono comunque dei clandestini potenziali: se l’azienda per la quale lavorano chiudesse, il loro visto decadrebbe e diventerebbero clandestini. Gli immigrati irregolari nuotano attorno, ma prima o poi saliranno.
Nuota, ma non da solo, Francesco. Ha un cane a fargli compagnia. Abiti firmati, modi raffinati, ha 24 anni ma ne dimostra di più, è dentro NYC senza poterne uscire da 6 anni, ma deve scontarne altri 5 da clandestino prima di ottenere la Carta Verde per ricongiungimento con la sorella. New York è una prigione, grande, ma pur sempre una prigione. Francesco è dentro, è illegale, ma lavora.
Francesco vuole fare carriera nel business della ristorazione. «Qui non importa chi sei. Se vuoi lavorare la gente ti assume, basta la voglia di fare». Ora guadagna 1.200 dollari a settimana, «è vero: non posso guidare e non posso avere un’assicurazione sanitaria. Un intervento al ginocchio mi è costato 5 mesi di lavoro. Però i miei amici italiani aspetteranno i 35 anni prima di potersi mantenere. E chi è più libero secondo te, loro o io anche se non posso uscire da un confine?».
Anche lui versa i contributi che non gli ritorneranno mai sotto forma di pensione perché corrispondono a una persona che non esiste. «E in Italia, quelli della mia generazione, vedranno mai i contributi che stanno versando?».
Un viaggio con i “fuoribordo”, e ciò che resta sono gli strappi sui vestiti, gli strappi alle regole, gli aloni gialli, gli odori forti e le rughe di persone che non esistono, eppure ingranaggi di un’enorme macchina economica, che li utilizza in svariate maniere, un immenso bacino di manodopera a ottimo mercato. Senza il lavoro di queste mani fantasma, ma sudate e inquiete, Times Square si spegnerebbe.