Marco Ferrante, Il Messaggero 28/9/2012, 28 settembre 2012
LA POLITICA INDUSTRIALE NELLE MANI DEI GIUDICI
La politica industriale di un Paese non può farla un magistrato. Questo sta succedendo a Taranto. Non può essere un magistrato a decidere se un piano aziendale può funzionare oppure no, o in che modo interrompere una catena produttiva complessa ed estremamente costosa. Un conto è garantire il rispetto delle leggi, un’altra cosa è muoversi sulla base di un’idea, e imporne le conseguenze a una grande impresa, a tredicimila addetti diretti, a un indotto che vale altri tremila lavoratori per quasi duecento aziende, a oltre quindicimila famiglie e a una città di 190.000 abitanti. Secondo il ministro per lo Svilupo economico Corrado Passera l’impatto che deriverebbe dalla chiusura di Taranto sarebbe pari a 8 miliardi di euro, cioè lo 0,5 per cento della ricchezza prodotta in Italia ogni anno. Una cifra enorme se si pensa che la recessione è grave: il pil segna nel secondo trimestre meno 2,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e la disoccupazione è al 10,5 per cento, la più alta dal 1999. E non è possibile lasciare a un giudice una decisione - e la responsabilità - che riguarda una intera comunità, che da quell’acciaio in parte dipende.
Per le decisioni generali, per stabilire in che direzione deve andare la società, esiste la politica. E per quanto sia in una fase alquanto complessa e fragile - la cronaca ce lo racconta ogni giorno - è ancora il potere a cui deleghiamo la mediazione degli interessi. Da vent’anni esiste in una parte della magistratura italiana la tentazione di esercitare forme di supplenza. In una crisi generale di classe dirigente, e nella conseguente slabbratura dei rapporti di potere, ci sono magistrati che rivendicano un ruolo.
È chiaro che anche la magistratura può e deve contribuire alla crescita generale di un Paese. Quello che deve essere chiaro, però, è che tutti dovrebbero rispettare i limiti fissati dall’ordinamento e dal senso della realtà. Non può essere un gip a dare una risposta radicale e definitiva alla vita di migliaia di famiglie, così come non può essere la magistratura a definire il sistema delle relazioni industriali con decisioni monocratiche.
Ci sono altre categorie a cui saremmo disposti a concedere un potere così grande? Certo che le emissioni di diossina - peraltro contenute dalle politiche di risanamento avviate dall’Ilva negli ultimi anni - sono un problema da risolvere; certo che la sostenibilità ambientale di una fabbrica di quelle dimensioni (l’Ilva di Taranto è il più grande impianto siderurgico d’Europa) è una questione delicatissima; ma bisogna evitare che il rimedio giudiziario sia peggiore del danno che si vorrebbe evitare. Taranto sta diventando un terreno di confronto ideologico, dove si fronteggiano giudici e sindacati (a loro volta divisi come stiamo vedendo nello sciopero in corso), velleitarismi di quella parte di società - che si considera civile a prescindere - e pezzi di mondo industriale rimasto in piedi nonostante la crisi. Ma il rischio che si corre, quando entra in campo l’ideologia è quello di agire in una dimensione immaginaria e irrealistica. Una città senza lavoro e in ginocchio non è una soluzione.