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 2012  settembre 28 Venerdì calendario

COSÌ GIOVANI E GIÀ COMUNISTI


Lì, nella grande sala di periferia, uno striscione rosso, “Federazione Livorno”, srotolato davanti agli oratori che si danno il cambio a colpi di “compagno”. Là, a pochi chilometri da città e provincia, in un buco di stanza tempestato di Marx, Lenin e Mao Tze Tung, (dizione cinese di mezzo secolo fa), la nostalgia per «il centralismo democratico del Pci» e per Kadar il magiaro e Honecker il Ddr. Infine, a due passi dall’acqua e dalle mura Leopoldine, in un labirinto di pareti cirilliche e bolsceviche, la certezza che «Stalin aveva ragione» e che «il capitale è il male assoluto e ha perduto».
L’oratore che sta parlando ora, al seminario politico, ha giusto vent’anni. Il nostalgico che spiega di essere «praticamente figlio di una falce e di un martello» è l’unico ad aver toccato i quaranta. E chi rimpiange la vecchia coscienza di classe, ne ha appena compiuti trenta. Sì, uno soltanto era maggiorenne quando è caduto il Muro. Ma tutti si ritrovano nell’autoritratto scolpito da uno di loro: «Oggi è comunista chi si definisce tale».
E allora, viaggio in una domenica tutta comunista nella città che al comunismo ha dato i natali, novantuno anni fa, mentre la crisi morde cuore e certezze, l’operaismo riaggalla vistoso, dall’Ilva all’Alcoa, e l’autunno è dato per “caldo” da mesi e da tutti, governo incluso. E, ancora, mentre il capitalismo finanziario è «ormai un enorme casinò globale» (Goran Therborn da Cambridge) e Zygmunt Bauman, lo studioso della “società liquida”, sceglie come «unica strategia» contro l’incertezza, «Antonio Gramsci e il suo modo di prevedere il futuro, unendo le forze e congiungendo gli sforzi per piegare gli eventi ai nostri desideri». Recuperandone pure l’idea di interregnum: «Viviamo in una condizione di vuoto: c’è un vecchio sistema che non funziona più ma non ne abbiamo ancora uno alternativo che ne prenda il posto».
Perché quello alternativo, novantuno anni fa, proprio a Livorno, Gramsci&C. decisero (con storica scissione dal Partito socialista) che fosse il comunismo. Poi la Storia ha fatto il suo corso, pre e post-bellico, la guerra per quarant’anni e passa s’è fatta fredda e infine il Muro è venuto giù a pezzi, mostrando di quell’esperienza le macerie.

Livorno, mattina. Al seminario “Essere comunisti”, ospitato nel circolo Arci di via Campania. «Ma non c’è un solo Paese dell’Est dove non siano rinati, con successo, i partiti comunisti, vorrà pur dire qualcosa, no?». Lorenzo ha 36 anni ed è «comunista, a differenza di mio cugino Alessandro»: Cosimi, il sindaco Pd di Livorno. «Per me essere comunisti non è certo anti-storico: vuol dire ancora analizzare la società per capire gli sbocchi futuri». Epperò quelli passati… «Sì, fallimento c’è stato ma anche il capitalismo ha fallito. In Italia, per esempio, abbiamo pagato una distonia tra lotta e governo. Perché la forza comunista non sono i partiti, ma l’idea. Mi sono iscritto al Pci che avevo 15 anni e dico che, senza il comunismo come controparte, Keynes e Roosevelt non avrebbero fatto quello che hanno fatto dopo il ’29. E ancora, Cuba è stato un esempio per il Terzo mondo, nonostante l’embargo subito».
Vecchia scuola e nuova scuola: quella puramente ideologica e quella pure emotiva di Veronica, 30 anni, «comunista dopo i fatti di Genova», o di Alessandro, 20, che accusa i vecchi compagni «di avere disperso un capitale gigantesco», mentre lui, «passato da Genova, Acerra e Pomigliano», cavalca «l’onda emotiva della mia generazione». Quasi rifacendo il verso agli anni Settanta, quando intorno al Pci si radunarono 12 milioni di voti mica tutti comunisti, come rammenta il romanzo autobiografico (appena edito da Bompiani) di Pino Roveredo, Mio padre votava Berlinguer.

Rosso colore. Livorno è un po’ “il posto delle fragole” per il comunismo, e non solo per via del natale. Città tinta di rosso, tanto che due anni fa venne fuori una polemica per la bandiera che volteggiava sull’asilo acquartierato nello stesso stabile dove nacque il Partito. E città di giunta rossa, ma guai a dirlo stamattina, nella sala dell’Arci, «perché il Pd, che esprime il sindaco, mica è rosso, anche se tanti comunisti continuano a votarlo, chi in buona fede, tanti per abitudine».
Poi, è rossa la maglia del Livorno calcio. Rossa da sempre la sua tifoseria, gemellata con quella di Empoli: i compagni battuti nel derby di Serie B del giorno prima. Rosso il calciatore storico Cristiano Lucarelli, un tempo idolo della curva quando, dopo un gol con la Under 21 si tolse la maglia azzurra e mostrò la canotta con Che Guevara. E rosso pure il “compagno pugile”, come lo chiamava Radio Onda d’Urto: al secolo Lenny Bottai, detto “Mangusta”, il livornese già campione italiano dei superwelter.

Gelosie fiorentine. Il seminario sta volgendo al termine, quando aleggia per un attimo il fantasma di Matteo Renzi, perché nominare Renzi a un giovane comunista, oggi, è come mostrare l’aglio a un vampiro. Come sosterrà Ivan da Empoli, nel pomeriggio: «Renzi è la più ovvia conseguenza del progetto del Pd, il suo figlio naturale, la sua più coerente evoluzione. Una catastrofe». Che a Livorno ha pure a che fare con la gelosia per la Leopolda: la stazione fiorentina – lì, dove il sindaco Renzi si è proclamato Rottamatore – capolinea dell’antica linea “leopoldina” che muoveva dal porto di Livorno.
«Ora, la parola al compagno Fatigati. Si prepari a parlare il compagno Lenzi», suggerisce la direzione del seminario, organizzato da una corrente di Rifondazione. Ma il microfono gracchia un poco e la dizione si impasta, provocando uno spassoso equivoco in sala: «Il compagno Renzi? Come sarebbe il compagno Renzi? Mica il Renzi è un compagno», se la ride, sbertucciando il sindaco di Firenze, la platea.

Qui si “arcoreggia”. E qualche ora dopo, nell’angusto stanzino della fu redazione de Il Resto del Kremlino – siamo dalle parti di San Miniato, altra tappa dell’antica tratta Leopolda – all’ombra di ritratti di Marx e Gramsci, Lenin e Stalin, Mao e Ho-Chi-Min, il compagno Francesco, 30 anni, chiarisce il concetto: «Noi non facciamo riferimento a nessun partito, né ai Comunisti italiani né a Rifondazione anche se prendiamo le tessere di tutti e sogniamo il vecchio partitone: siamo comunisti e basta. A volte votiamo per questo, a volte per quello, a volte non votiamo affatto. Se però ci sarà da votare Bersani il giorno delle elezioni un sacrificio io lo farò, perché la sinistra è la sinistra. Ma se ci sarà Renzi non ci andrò mica: non c’entra nulla lui, con la sinistra».
La visita ad Arcore, a casa Berlusconi – allora presidente del Consiglio, che si complimentò col giovin sindaco fiorentino – è una macchia indelebile nella memoria di ogni comunista toscano. E, come se non bastasse, ecco che il cellulare si mette a lampeggiare l’ultimo lancio d’agenzia che recita: «Berlusconi: “Renzi porta avanti le nostre idee. Se vince, la sinistra diventerà socialdemocratica”». Dichiarazione accolta con un ghigno marxista: «Visto?». E annessa smorfia di rigetto politico.
Insomma, Matteo Renzi “arcoreggia” fin troppo per i gusti comunisti. E i compagni, livornesi e affini, “arcoreggiano” – a loro volta – nei suoi confronti, ché il verbo “arcoreggiare”, scartabellando su Google se si ha voglia di curiosare, esiste eccome.
O meglio, esisteva. Anche se adoperato, a quanto se ne sa, in un solo angolo d’Italia. Ne dà notizia lo storico Francesco Pera in un volumetto pubblicato alla fine dell’Ottocento dal titolo, guarda un po’ il caso: Curiosità livornesi inedite o rare, dove cita un poemetto locale, nel quale la gente “arcoreggia”. E cioè, “si piega a guisa d’arco” – sì, insomma, si sporge in avanti – “per far conati”. Sull’orlo di una crisi di nausea. L’esatta postura testè mimata dal compagno Francesco nei confronti del Rottamatore fiorentino, sotto lo sguardo – severo e in bianco e nero – di Palmiro Togliatti in ritratto.

Il banchetto bolscevico. Il loro mensile sui generis – «registro semiserio, un po’ comico-comunista, roba da Rifondazione umorista», sorride Pilade, 40 anni, che al Comune di Firenze ci lavora – è andato avanti fino al 2009, poi ha cessato le pubblicazioni. «Ma il nostro gruppo politico-musicale, gli Aeroflot (omaggio alla compagnia di bandiera sovietica, ndr) si ritrova ancora qui. E da qui partono tutte le nostre iniziative, compreso il “banchetto bolscevico” che organizziamo a novembre. No, non si “mangiano i bambini” ma si ricordano i banchetti clandestini qui in paese sotto il fascismo. L’ultimo aveva per titolo: La rivoluzione è anche un pranzo di gala». Ribaltando, buffet alla mano, una massima maoista.
Intonata, quanto a proposta politica comunista, all’aria che qui si respira: quasi da omaggio alla memoria. Elena, trent’anni, «libera professionista, partita Iva da mille euro, quelle che nessuno tutela», crea siti internet e pure uno slogan: «Nell’Italia del 2012 si tratta di mantenere viva, solida e nitida la storia dei comunisti italiani. Per sapere da dove veniamo. Molto di più, oggi, non si può fare». Un pragmatismo che sa molto di tramonto, di nottata da passare, più che di “sol dell’avvenire”.
«No, non è pessimismo. E, difatti, io non parlo di fallimento dell’esperienza comunista, come fanno tanti altri, ma solo di sconfitta. Perché il comunismo, a mio modo di vedere, resta una scienza. E una scelta razionale e logica, quando vedi ogni giorno tutta una serie di ingiustizie che il socialismo potrebbe risolvere. Anche se la gente oggi non ha più voglia di lottare ogni giorno. E comunque, citando il suo babbo (sarebbe il padre di Pilade, che oltre a essere un tifoso del “centralismo democratico” è anche suo marito e padre della piccola Euridice, di anni uno, ndr), “O viene il socialismo o finisce il mondo”».

In memoria di Honecker. La tesi sostenuta è difatti quella che il capitalismo stia tirando le cuoia, non riuscendo più a ridistribuire i profitti: arricchendo “sempre più, sempre meno persone” e impoverendo “sempre più, sempre più persone”. «Alla fine aveva ragione il compagno Honecker, ultimo presidente comunista della Ddr, quando vent’anni fa presentò in tribunale la sua autodifesa», spara al bersaglio grosso Pilade, che si dichiara «un vero “anti” anti-rivoluzionari e anti-stalinisti». E Francesco s’incarica di tirare giù da internet le parole pronunciate dal leader comunista quel giorno, leggendole pure ad alta voce: «Il capitalismo ha vinto economicamente scavandosi la fossa, così come aveva fatto Hitler vincendo militarmente. In tutto il mondo il capitalismo è entrato in una crisi priva di sbocchi. Non gli è rimasta altra scelta che sprofondare in un caos ecologico e sociale».

Il “compagno” Mario. «Aveva colto nel segno», si bea Pilade: «Il comunismo di Urss e Ddr ha consentito in Europa, e soprattutto in Italia, redditi alti e piena occupazione, finché ha stimolato il mondo occidentale col suo socialismo realizzato: quindi, meglio Breznev di Eltsin, non c’è paragone».
Un’analisi che ne rammenta un’altra, più recente, che è giunto il momento di far presente anche a quelli di Aeroflot. Questa: «Fino a che esisteva un competitore serio – che poi è storicamente fallito, ma che metteva paura e che era il sistema comunista – il capitalismo ha trovato al suo interno gli anticorpi per rinnovarsi, per moderarsi e per orientarsi. Quando il capitalismo è diventato “il sistema”, senza la sfida di un modello antagonista, si sono create delle derive, come un’eccessiva finanziarizzazione».
«Esatto, un’analisi perfetta», fa Pilade entusiasta. Chi l’ha elaborata? Non esattamente un compagno della prima ora, visto che è una dichiarazione di Mario Monti, rilasciata a Sette. «Niente da dire: il premier ha totalmente ragione», sostiene il “comunista” di rimando. Dichiarazione che fa il paio con quella di Lorenzo, in mattinata: «L’analisi di Monti è esatta. La faccio anch’io».

Livorno, sera. E il commento dei giovani comunisti livornesi del “Centro Politico 1921”, che parlano a turno, ma “a voce sola”, come si usava nei collettivi di quarant’anni fa, si allinea alla causa: «Quello che ha detto Monti è giusto, se lo ha detto». Un dubbio per sanare il disagio di ritrovarsi, per un momento, sulla stessa barca delle idee.
Si chiamano Ale e Chiara, Michele e ancora Ale. Hanno dai 25 ai 37 anni e nessun partito di riferimento. Lavorano, chi in fabbrica, chi al porto, chi in negozio. Hanno famiglie e figli, ma «di certo nessuna nostalgia per ciò che non abbiamo vissuto».
Si richiamano a Ilio Dario Barontini, tra i fondatori del Partito comunista d’Italia, morto in un incidente nel ’51, di ritorno da Firenze, dove aveva festeggiato il 30° compleanno del Pci. E si dicono «non-revisionisti che prendono tutto ciò che nel comunismo c’è di buono, senza farne un dogma». Credono che «comunismo oggi vuol dire tornare a lottare per la generazione seguente, come accadeva quando il futuro aveva un arco di tempo e non come adesso dove il mondo ti cambia davanti in mezza giornata e perdi di vista ogni cosa per prendere ogni volta le misure». E giurano che «in tutte le nostre analisi sul capitalismo, alla fine perdente, abbiamo mostrato di avere ragione, ma non possiamo gridarlo e comunicarlo perché non abbiamo accesso all’informazione».

Quei “social” poco sociali. E dire che, come Pilade e gli altri, sono tutti sui social network, anche se serve a poco: «Prima discutevi davanti alle fabbriche e un volantino ti aiutava». Oggi è dura, ché tanti operai varcano i cancelli ascoltando ciascuno il suo iPod, «perché non c’è più coscienza di classe ma solo gente ormai lobotomizzata, quando invece c’è da lottare ogni giorno. Ma almeno ci sono ancora i comunisti».
Sì, ma quanti? «Non bisogna pensare a partiti e organizzazioni ma a un’idea», dicono al Centro Politico 1921. «Saremo 500mila in Italia a dirci comunisti», secondo Pilade. «Tre milioni di potenziali comunisti», giura Francesco. «Un terzo del Paese», azzarda Matteo da Empoli, 23 anni e «giovane comunista in una fase complicata e dura».
Si chiede Lorenzo: «Dieci milioni di italiani votavano comunista ancora nel ’90, mica saranno tutti morti o evaporati, no?». E chiude Alessandro, 27 anni, anche lui empolese, con una dichiarazione degna dell’umorismo-comunismo de Il Resto del Kremlino. «Siamo tanti, non so quanti, ma comunque sempre più di quelli che dice la Questura».