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 2012  settembre 28 Venerdì calendario

«VIVIAMO UN CAMBIAMENTO DI CIVILTÀ E SOLO L’ARTE PUÒ AIUTARCI A CAPIRE DOVE STIAMO ANDANDO»

[Intervista esclusiva a François Pinault]

Il cielo sopra Parigi alle 11 di mattina è ancora grigio, però mi aspetta qualcosa di caleidoscopico, in tutti i sensi. A cominciare dal cortile del palazzo storico dove François Pinault, il collezionista di arte contemporanea per “eccellenza”, ha il suo ufficio privato. All’interno, sulla facciata, i vetri della pensilina belle époque in ferro battuto sono stati sostituiti con altri in technicolor. Si riconosce subito la mano dell’artista francese Daniel Buren. Sua anche l’installazione che corre su per lo scalone: una scacchiera di carré trasparenti colorati, rossi, gialli, verdi, blu. È in questa vivace scansione che si colloca la personalità di Monsieur Pinault, sempre proiettato nell’istante che ancora deve sopraggiungere. Rimaniamo insieme più di un’ora e mezzo, nel suo studio luminoso e riposante, nei toni del chiaro. Veglia su di noi un grande dipinto di Lee Ufan (coreano, Premium Imperiale per la pittura nel 2001). E in quella sua pennellata di grigio stesa su campo bianco forse si addensano tutte le inquietudini della vita, anche quelle di Monsieur Pinault. Raccolte in questa intervista-conversazione, in cui a tratti lui ha anche invertito i ruoli. Non è un uomo dai facili entusiasmi, ma neppure glaciale come dicono. Per lui l’arte è una passione esigente. Sa prendere decisioni immediate, ma sa aspettare anche anni. È accaduto nel caso di un’opera di Martial Raysse (artista francese passato attraverso la fase del Nouveau Réalisme negli Anni 60), che gli aveva promesso un dipinto, poi finito cinque anni dopo. E allora, ricevuta la telefonata, Pinault volò da lui in elicottero per vederla subito. La sua importante collezione ha trovato casa nelle “roccaforti” di Palazzo Grassi e di Punta della Dogana a Venezia, che lui ama specialmente in inverno, per via della luce e della nebbiolina, e dei silenzi in piazza San Marco. Parla di Venezia in termini di “Serenissima” che da secoli vibra nella più grande eleganza e di Venezia come piattaforma d’ispirazione per gli artisti del mondo intero. In questa dinamica s’inserisce il progetto di recupero del Teatrino di Palazzo Grassi – ex teatro di verdura coperto nel 1961 e in disuso dal 1983 – che Pinault ha affidato a Tadao Ando (inaugurazione nel giugno 2013), lo stesso architetto che ha firmato la risistemazione di Punta della Dogana.
Monsieur Pinault, noi conosciamo la parte visibile della sua collezione (di cui finora, dal 2006, sono state esposte in mostra 750 opere nelle due sedi di Venezia), ma non come funziona il “dietro le quinte”. Immagino però la complessità di questa gestione della collezione: dipendenti, esperti, curatori, molto lavoro di ricerca, documentazione, visite negli atelier degli artisti emergenti, la formazione di un archivio. Vuole dirci qualcosa di più su questo “sistema”?
«Tutta la collezione è fondata sulla passione, sull’entusiasmo, sulla curiosità e il desiderio. Certo, ci sono persone, miei “corrispondenti” nel mondo, divise per aree geografiche, che hanno il compito di visitare le mostre, andare nelle gallerie e negli atelier degli emergenti: questo lavoro non posso farlo io direttamente. Una volta raccolti tutti questi dati si opera una selezione. Dopo aver visionato personalmente le opere, decido le acquisizioni. Dato che l’arte è la mia passione, e che le dedico veramente la mia vita, sarebbe un peccato delegare la scelta finale ad altri…».
Insomma un metodo già collaudato in passato dai principi europei e anche dai Medici, quando si affidavano ai loro ambasciatori e ai loro banchieri per reperire tesori. Sua moglie, Maryvonne Pinault, partecipa a questa sua avventura di collezionista e alle sue scelte?
«Mia moglie è appassionata di arti decorative, in particolare del XVIII secolo. Le piacciono le porcellane, il suo più recente acquisto è stato un servizio da tavola appartenuto a Marie-Antoinette. A volte io la spavento un po’ quando porto a casa la mia arte contemporanea, ma poi tutto si aggiusta, basta saper negoziare… come succede in ogni famiglia. La buona arte di oggi con la buona arte di ieri è un mélange che funziona sempre».
Quindi nessuna preclusione per l’arte antica...
«Non la escludo affatto. Pochi giorni fa alla Biennale des Antiquaires di Parigi ho visto una piccola e magnifica scultura dell’arte cicladica. Però ho dovuto imparare a restringere le mie passioni altrimenti mi sarei disperso molto facilmente. Non è una boutade, mi sono obbligato a farlo. Per spirito di curiosità, non escludo mai nulla a priori. Anche nell’arte contemporanea, pur amando il minimalismo, non mi sono limitato a questa sola corrente. Considero l’arte minimalista molto religiosa, del resto queste tre opere monocrome bianche di Robert Ryman qui in ufficio, appese alle mie spalle, mi obbligano a meditare, a concentrarmi».
E quindi anche a sondare le sue inquietudini metafisiche…
«Penso a quello che c’è “dietro il sipario”… A decifrare le mie inquietudini mi aiutano anche dei testi sulla spiritualità… L’Ecclesiaste è un libro che tengo sul mio comodino, soffro un po’ d’insonnia quindi mi resta del tempo anche per leggere, più libri contemporaneamente, romanzi, poesia, saggi… Sono un appassionato di biografie dei grandi personaggi che hanno influenzato la storia dell’umanità. Da Ciro il Grande a Winston Churchill, per citarne alcuni. Siccome non ho compiuto degli studi regolari, da autodidatta quale sono ho sempre avvertito il bisogno di formarmi attraverso la letteratura, la Storia. Dobbiamo anche essere capaci di auto-educarci. L’esperienza diretta che si acquisisce osservando la vita è, a mio parere, una delle migliori forme di apprendimento. E anche gli choc che si ricevono alla fine ci rafforzano».
Lei non è parigino, ma bretone. Che carattere ha un bretone?
«In generale ha la fermezza del granito e la perseveranza dell’oceano. Aggiungo poi che ha un’attrazione per il mare aperto e l’avventura, ma che è ben conscio della durezza della vita».
Lei è il proprietario del più prestigioso vigneto di Francia, Château Latour, dove si produce un grande vino rosso. Ma ora anche del Château Grillet, un ottimo bianco. L’arte e il vino sembrano essere le sue due passioni. C’è un nesso tra queste?
«Direi di sì, anche se sarebbe buona regola evitare facili paragoni. Un artista, quando inizia un’opera, non sa dove lo porterà il suo gesto, e se alla fine quel che sta facendo lo soddisferà. Il vino è fatto dai contadini, e a me piace incontrare le persone che si occupano dei miei vigneti. Sarà buona la vendemmia del 2012? E chi lo sa… A volte per dire se in quel dato giorno ha fatto bel tempo, occorre attendere fino a sera. Così è anche per il vino, è necessario aspettare che sia messo nelle vasche. Ci vuole pazienza, umiltà e anche nell’arte bisogna dare tempo al tempo».
Qual è il vero nemico dell’arte?
«Il conformismo che ostruisce il pensiero con il pregiudizio, che impedisce di capire, sentire, vedere e, soprattutto, superare il gusto imperante. Ma l’arte rifiuta i diktat e i compromessi, rendendo lo sguardo libero. Diffido di un’arte facilmente accessibile e leggibile, magari perché troppo estetizzante. Una vera creazione la si decifra con una certa fatica, e può anche suscitare un’attrazione-repulsione al primo impatto».
Ho scorso attentamente il “libro d’oro” dei visitatori di Punta della Dogana. Molti si sentono insultati dalle sue scelte artistiche.
«La natura dell’arte è di suscitare reazioni forti. La cosa peggiore è l’indifferenza. Dal 2006 a oggi ci sono stati più di un milione e mezzo di visitatori a Palazzo Grassi e a Punta della Dogana: è fisiologico che ci siano anche delle reazioni vivaci. Si teme il nuovo, perché non si sa che cosa può accadere. Andare a visitare una mostra a Punta della Dogana significa aver già preso una decisione: quella di accettare di vedere qualcosa forse d’indecifrabile, ma con il quale ci si vuole almeno confrontare. Questo è ciò che conta. Deleterio è chiudersi nel proprio bozzolo, ripiegarsi sulle proprie certezze, nella vita come nell’arte. Io penso che si debba vivere la propria contemporaneità, cercando di interpretare l’avvenire. Gli artisti hanno capacità di veggenza e una sensibilità molto più acuta di noi, hanno un’angoscia esistenziale che li spinge a porsi più interrogativi».
Lo storico dell’arte Jean Clair ha raggiunto la convinzione che l’arte contemporanea è come una penna che non scrive...
«Non perché non si riesce a leggere si deve incolpare la penna... Io preferisco i miei dubbi e i miei interrogativi alle sue certezze. Preferisco la mia passione del presente ai rimpianti del passato. Generalmente, quando è in corso una rivoluzione, si ha paura di perdere tutto. La storia dell’arte è inseparabile da quella dell’umanità. Mi dispiace se alcuni sono riluttanti a capire il mondo che li circonda».
Ma la Gioconda, icona di ogni tempo, con il suo sorriso che appartiene al mistero di ciò che è eterno, mette d’accordo passato e presente…
«La Monna Lisa era contemporanea alla sua epoca, come lo è perfettamente anche oggi, racchiudendo in quel suo sorriso tutti gli interrogativi ai quali non ci potranno mai essere risposte».
Quale artista del passato non la emoziona più?
«In realtà quello che mi colpisce è come gli artisti contemporanei si appassionino alle creazioni del passato, e siano attenti ai maestri, loro predecessori. I fratelli Chapman e Goya, Damien Hirst e il barocco, Jeff Koons e Courbet e Poussin, Marlene Dumas e la pittura tedesca, Thomas Houseago e Picasso, Takashi Murakami e la pittura giapponese del XVI e XVII secolo... Gli esempi abbondano. Questo dimostra che non c’è frattura tra l’arte del passato e quella del presente, ma anzi una profonda continuità, ed è assurdo mettere una contro l’altra».
Una delle sue ultime acquisizioni è l’installazione di quattro grandi crocefissi realizzati in filo spinato dall’artista arabo Adel Abdessemed che si è proprio ispirato alla famosa pala di Grünewald di Isenheim. E lì quei crocefissi sono stati portati per un “ricongiungimento” di senso…
«Per me è una delle creazioni più importanti di questo primo decennio del XXI secolo. L’opera sarà esposta a Parigi in ottobre al Beaubourg. Come vuole che un museo possa subito acquistarla? Ci vuole un pazzo come me che, appena l’ha vista, ha subito detto: la compro, senza neppure chiedere il prezzo. Imprudente, ma avevo la sensazione che si trattasse di un capolavoro. E una volta accostata a quella di Grünewald a Colmar, la mia intuizione è stata confermata. In questo lavoro c’è il concentrato di tutte le violenze fatte dall’uomo sull’uomo. Che dalla preistoria a oggi non è profondamente cambiato. Ma che nel nostro tempo ha adottato degli strumenti di violenza molto più efficaci, che non lasciano scampo».
Ogni anno, nel mondo, si aprono sempre nuovi musei di arte contemporanea, architetture di grande richiamo, con le quali spesso si ridisegnano anche le città. E i visitatori accorrono.
«Credo sia un fenomeno legato alla ricerca dell’assoluto, alla trascendenza. Trovo che questo modo di riunire le persone, di far loro condividere delle passioni, sia una bella forma di “comunione”».
Nel mondo dell’arte e nella storia dell’arte, lei è riuscito a integrare diverse coordinate, declinate nella produzione (con le commissioni di opere agli artisti), nell’acquisizione delle stesse e nella loro circolazione nel mercato, anche tramite le aste.
«La mia attività in ambito contemporaneo non ha alcuna matrice commerciale. È bene fare chiarezza, una volta per tutte. Sono un collezionista e agisco come tale, e proprio per questo mi capita di vendere anche delle opere, magari comprate decenni fa, e che oggi mi interessano meno. Ho la grande chance di avere accesso diretto agli artisti, di commissionare loro delle opere specifiche per le mostre che presentiamo al pubblico a Venezia. Per gli artisti è una grande opportunità potersi confrontare con Venezia, fonte di grande ispirazione. Lasciamo totale libertà all’artista di esprimersi come meglio crede. Si tratta di commissioni pure, senza alcun risvolto di mercato. E quindi prescindono dal dispositivo Christie’s, che è estraneo a tutto ciò, ed è un’entità ben separata. Interessarsi agli artisti, commissionare loro delle opere e presentarle al pubblico nell’ambito di progetti espositivi, non significa né promuoverne la vendita né far salire le quotazioni».
Oltre a Cattelan e ai maestri dell’Arte Povera (qui da lei vedo un’opera di Penone), quali artisti emergenti italiani predilige?
«Tra gli artisti di fama, dimentica Rudolf Stingel, un grande maestro. Io non ragiono mai in termini di nazionalità, però da voi oggi c’è una generazione molto interessante, spesso molto mobile, con artisti del calibro di Tatiana Trouvé, Piero Golia, Rosa Barba, Lara Favaretto…».
Quale artista contemporaneo non la emoziona più?
«La questione non riguarda tanto gli artisti ma le loro opere. Alcuni artisti possono avere periodi di grande ispirazione, e altri meno interessanti. È importante avere sempre uno sguardo critico, per essere in grado di discernere i capolavori dalle opere di minore importanza, per avere il meglio in collezione. Il mio maggior desiderio è che questo centro di arte contemporanea diviso fra Palazzo Grassi e Punta della Dogana rimanga davvero contemporaneo, altrimenti rischierebbe di essere un “mausoleo” e questo non voglio che accada. Sennò diventerebbe un classico museo d’arte moderna con una collezione ancorata nel passato. La mia volontà di vivere il tempo presente è realmente qualcosa di molto preciso e lo esprimo con le mie scelte di collezionista. Gli artisti che entreranno in futuro in questa raccolta devono probabilmente ancora nascere! Questo slancio non è importante solo per me, ma anche per Venezia, che ha sempre saputo ispirare il meglio della creatività in ogni tempo».
Monsieur Pinault, quali sono oggi le sue curiosità intellettuali, al di là dell’arte?
«Sono felice di vivere in questo tempo così ricco di impulsi che arrivano dall’evoluzione economica, finanziaria, culturale e politica. Sono affascinato da questo mondo pieno d’incertezze e al tempo stesso vivace e stimolante. Mai nella storia dell’umanità il pensiero, la ricerca e la tecnologia hanno conosciuto svolte spettacolari in così poco tempo. Il mondo si apre, e ci offre avventure intellettuali, politiche e culturali straordinarie. Ho l’impressione che stiamo vivendo un cambiamento di civiltà in piena consapevolezza».
Lei parla di incertezze…
«Vedo anche un’accelerazione della Storia, rimasta fino a poco tempo fa in uno stato di veglia. E ciò è appassionante. Ma se non ci si adegua a questo passo rapido, davvero sfugge qualcosa. Nessuno può fare previsioni su come sarà il mondo tra cinquant’anni o anche meno. Un tempo la realtà evolveva più lentamente, e gli scenari potevano essere più prevedibili».
E se l’Europa crollasse…
«Se l’Europa crollasse, e se l’euro non esistesse più da qui a qualche anno, se la politica comunitaria scomparisse, se ci fosse una crisi più profonda, se insorgessero tensioni sociali, o dei cambiamenti politici, chi può essere sicuro che, magari tra quindici, vent’anni, non si scatenerebbero nuovamente delle guerre anche in Europa? Guardi oggi queste tensioni tra la Cina e il Giappone per delle rocce… c’è un rischio concreto di guerra. Sappiamo bene che le grandi crisi economiche hanno portato sempre alla stessa cosa e a questo proposito la decisione coraggiosa delle autorità europee va nella giusta direzione».
Noi oggi siamo arrivati a un punto in cui un’opera è considerata capitale se per acquistarla si spendono milioni. A prescindere dal valore intrinseco che può avere. E se tra cento anni le opere degli artisti oggi strapagati valessero la metà della metà della metà, cosa penserebbero gli storici dell’arte del XXII secolo, della nostra società e del nostro tempo?
«Ma non è una novità. Con le giurie accademiche, le associazioni dei pittori, e oggi il mercato dell’arte, ci sono sempre stati dei riconoscimenti ufficiali che hanno influenzato le quotazioni degli artisti. Ma queste raramente fanno la storia dell’arte. Un vero amante dell’arte determina liberamente le sue scelte. Non può e non deve agire se non guidato da un’autentica passione, a prescindere dalle imposizioni del momento, anche se i dettami del mercato possono influenzare le scelte e i desideri di alcuni».
Nel maggio di quest’anno Sotheby’s ha venduto il dipinto più simbolico del ’900, l’Urlo di Edvard Munch. Non le interessava? Lei acquista anche dalla concorrenza?
«L’Urlo non m’interessava molto perché, come ho appena detto, ho deciso di concentrarmi sul contemporaneo. Posso dire di essere un grande cliente di tutte le case d’asta, non solo della mia. Se un’opera m’interessa compro ovunque. Anche un proprietario di ristorante non pranza mai sempre e solo nel suo locale, anche se la cucina è ottima».
Lucian Freud era un grande ritrattista, e anche oggi questo genere è molto amato dagli artisti. E anche lei ha posato, ma in mondo non usuale…
«Uklanski ha usato la radiografia del mio cranio, e i miei nipoti hanno subito riconosciuto che ero io, proprio dalla conformazione delle ossa. Pierre et Gilles mi hanno visto nelle vesti di Capitan Nemo, ora invece Zeng Fanzhi e Urs Fischer vogliono ritrarre il mio cane…».