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 2012  settembre 28 Venerdì calendario

UNA, CENTO, MILLE LE ALTRE ILVA DI CUI NON SI PARLA

Ricordate la ThyssenKrupp di Torino, l’acciaieria nella quale - nella notte tra ii 5 e il 6 dicembre del 2007 - una fuoriuscita di olio bollente costò la vita a sette operai? Potrebbe essere proprio quella fabbrica, simbolo di una tragedia che ha segnato una svolta nella, coscienza collettiva e nei processi per gli incidenti sul lavoro in Italia, la clamorosa new entry nella lista dei luoghi a rischio di inquinamento. Dopo e oltre Ilva di Taranto o l’Eternit di Casale Monferrato (Alessandria). decine di altri siti, a volte insospettabili e da cartolina, compaiono già (o compariranno presto) nella mappa dei veleni d’Italia. Alla Thyssen, per esempio non è ancora stata fatta un’analisi della qualità del suolo, cioè di tutto ciò che, in decenni di produzione siderurgica (una delle più inquinanti, oggi la fabbrica è chiusa), si è accumulato appena sopra la falda acquifera o forse ben più in basso. Una mini-bonifica è già in corso per contenere gli oli che contaminano la falda, a causa di un incidente del 2000, mentre nell’intera zona sono al lavoro da tempo i tecnici dell’’Arpa, l’Agenzia regionale per l’ambiente.
Il loro incarico è cercare di capire da dove arriva il cromo esavalente, un altro veleno pericolosissimo di origine industriale che ha raggiunto le acque della Dora. Nessuna valutazione del rischio, però, potrà essere fatta fino a quando la Thyssen – che sta cercando di vendere il sito, condiviso proprio con l’Ilva - non consegnerà i propri dati al Comune di Torino per ottenere i permessi necessari a federe la proprietà.
Ma vicende come questa non accadono solo nel capoluogo piemontese e non soltanto in siti già alla ribalta nelle cronache. Ed ecco spuntare, allora, altri luoghi meno noti e più inaspettati, nei quali fabbriche, incidenti ambientali, discariche o miniere procurano malattie e morte, come accade per esempio agli operai dei calzaturifici della zona di Massa Carrara e di Ascoli Piceno) per l’esposione soprattutto negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, al poliuretano (usato per le suole) e ai solventi (adoperati per pulire gli stampi). Quelle sostanze avrebbero fatto aumentare i casi di cirrosi e di Parkinson tra le donne, alcune malattie circolatorie del cervello ira gli uomini, e provocato malformazioni congenite tra i neonati. A Colleferro, tra Roma e Frosinone, la produzione di materiali ferroviari ha provocato invece una crescita dei tumori allo stomaco e all’intestino. Cosi come l’alluminio e il magnesio usati dalle industrie di Bolzano potrebbero aver favorito l’impennata dei casi di demenza, mentre i policlorobifenili (pcb) delle industrie chimiche bresciane favoriscono i tumori: piu facilmente tra gli operai rispetto agli impiegati e ai dirigenti. E pochi che nella zona dei laghi di Mantova, l’asma è più diffusa che altrove, probabilmente a causa delle attività del polo petrolchimico locale, per il quale gli esperti raccomandano «ulteriori studi». Mentre i rifiuti, le dscariche illegali (e i roghi per distruggerli) hanno fatto registrare un aumento dei tumori al polmone, alla stomaco e alla vescica per gli uomini, e di quelli al fegato anche per le donne, a Napoli e nei comuni vicini. A Porto Torres (Sassari), invece, si muore più che altrove di tumore (e di leucemia). In particolare per chi ha lavorato vent’anni o più nella produzione di cloruro di vinile al Petrolchimico.
Insomma, la mappa dei veleni ha già riservato molte sorprese, e potrebbe riservarne molte altre, man mano che gli scienziati continueranno a disegnarla. Gli epidemiologi italiani, infatti, sono quasi come un gruppo di iniziati: detentori di segreti che tutti vorrebbero conoscere, ma che godono ancora di troppa poca trasparenza (e non certo per colpa degli stessi epidemiologi). I dottori delle statistiche della salute, dunque, studiano dati terribili, ma non vedono mai un paziente, e a loro è affidata una domanda angosciante: quanto si muore in Italia per aver lavorato o vissuto vicino a fabbriche come la Eternit di Casale Monferrato o l’Ilva di Taranto? Molte risposte sono già, contenute nelle 204 pagine di Sentieri, il più grande studio mai realizzato in Italia su 44 dei 57 siti compresi nel Programma nazionale di bonifica: luoghi già noti e altri invece pensino sorprendenti, come Biancavilla (Catania), un piccolo paese ai piedi dell’Etna. Nel 2011 ci si e resi conto che anche lì si moriva (e troppo) di mesotelioma pleurico e si è dimostrato che la colpa non era di una fabbrica, ma dell’abitudine locale di costruire le case mescolando nella malta i materiali vulcanici: che, però, contenevano fibre di fluoro e di asbesto.
Per presentare il loro ultimo lavoro (Sentieri viene continuamente aggiornato), il gruppo di scienziati dell’Istituto superiore di Sanità (Iss) ha scelto un titolo lungo e più sfumato in italiano (Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento) e invece più breve, ma più chiaro, in inglese (Mortality Study ofResidents in Italioti Polluted Sites, Studio sulla mortalità dei residenti nei siti italiani inquinati). Il tutto accompagnato da un verso molto esplicito di Blowin’ in the Wind di Bob Dylan: «Yes, ‘n’ how many deaths will it take till he knows. That too many people have died?» (E quanti morti ci dovranno essere, affinchè lui sappia che troppa gente è morta?).
Quanti morti lo dice Sentieri, e lo spiega Pietro Comba, il capo degli epidemiologi dell’Iss: «Negli otto anni durante i quali abbiamo studiato i 44 siti oggetto di Sentieri, per una popolazione totale di 5,5 milioni di abitanti, ci sono stati 400 mila decessi. Circa 10 mila in più di quelli che ci saremo aspettati rispetto alle normali statistiche. Di questa sovramortalità, 3.500 casi sono direttamente riconducibili all’inquinamento del luogo, che deriva dall’amianto, dal piombo o da altre sostanze, mentre gli altri 6.500 possono essere provocati anche da altri fattori, ma sono comunque in eccesso». Come dire che, ogni anno, 1.200 italiani – tre persone al giorno - muoiono avvelenati. E tutto ciò facendo riferimento solo ai siti che già si trovano sotto la lente di ingrandimento degli scienziati. Altri, pur se sospetti, non sono ancora invece entrati dentro Sentieri perche riguardano zone troppo piccole: è il caso di Bagnoli a Napoli, delle Basse di Stura a Torino e di Guglionesi, in provincia di Campobasso, dove da vent’anni esiste una discarica di rifiuti pericolosi.
«Lavoriamo su una lista dinamica, che aggiorniamo
di continuo» racconta Comba «e che abbiamo appena esteso a aree come Bussi sul Tirino, in provincia di Pescara, dove per tutto il Novecento l’industria chimica ha lavorato prima alla a causa produzione del gas nervino, durante le guerre coloniali e poi a quella dei detersivi per lavastoviglie. L’ultimo ingresso in questa sorta di black list? Le zone dei poligoni militari in Sardegna».
A uccidere, poi, non e soltanto un mostro come l’amianto: ma studiare la potenziale pericolosità di un sito e di
una sostanza, da una parte, e poterlo dimostrare, dall’altra, suno due cose ben diverse. Fino a oggi infatti, in Italia, unicamente il nesso tra l’industria dell’amianto e il mesotelioma o stato dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio, mentre per ora esiste solo l’evidenza limitata (cioè la probabilità che il danno esista, ma non la certezza) di aumento dei tumori polmonari (o di malattie respiratorie diverse dal tumore) per chi vive vicino a poli siderurgici e petrolchimici. Un lavoro non facile: «Esiste un registro dei tumori solo nella metà dei siti che abbiamo esaminato» conclude Comba, «mentre ancora non sappiamo come mai la sovramortalità sia più alta al Sud rispetto al Nord. Un’ipotesi è quella che lo sviluppo industriale, nel Meridione, sia più concentrato nelle città rispetto a quanto accade nella pianura Padana, perché è stato progettato senza preoccuparsi troppo ne dell’impatto ambientale ne di quello sanitario. E quando arriviamo infine a una conclusione su un sito, dobbiamo essere certi di quello che diciamo. A quel punto, non ci possono più essere discussioni, ma soltanto decisioni da prendere».