Emanuela Audisio e Gianni Clerici, La Repubblica 28/9/2012, 28 settembre 2012
LA RACCHETTA DELLO SCRITTORE
ERA il David Bowie della racchetta. Capellone e diverso. Si truccava, si smaltava le unghie, giocava con i pantaloncini jeans, scartati da McEnroe e anche senza mutande (a Parigi). Ora con “Open”, in Italia, è il caso letterario dell’anno: 130 mila copie vendute (50 mila negli ultimi tre mesi). Aveva la ribattuta più veloce del mondo, ora vince con un’onda lunga e lenta, ma sempre implacabile. Un long-seller, visto che negli Usa l’autobiografia è uscita tre anni fa. Non facevi in tempo a servire, che già ti aggrediva da fondo campo, ora invece ti conquista in 493 pagine, insomma ce ne mette, non ha più fretta. E in un anno è salito in cima. Era il kid di Las Vegas: pazzo, scatenato, eccessivo. Un vandalo, con la racchetta e senza. Sfasciava certezze, veloce come una pallina della roulette. Ciuffo rosa da moicano e orecchino. «Ti vesti da finocchio», gli disse il padre, ex pugile, emigrato dall’Iran. Per Ivan Lendl, che non voleva fargli un complimento: «Un taglio di capelli e un dritto». Per l’Italia era un campione barbaro e viziato, lontano da ogni classicità, uno che faceva ragazzate.
Uno grande sul campo, anzi su ogni tipo di campo (terra, erba, cemento): 21 anni di carriera, 1.000 partite, l’unico americano ed uno dei sette giocatori al
mondo ad aver vinto 4 titoli del Grande Slam. Ora a 42 anni è un Amleto calvo, sopravvissuto ai dubbi, ai tormenti e al suo regno. Non si è ucciso, anzi si è ritrovato, con parole che lasciano il segno. Come i suoi schiaffi al volo. La sua partita è iniziata presto, prigioniero del padre, rissoso e collerico, che lo voleva campione a tutti i costi e che con uno sparring-robot lo esortava: «Fagli venire le vesciche al cervello al tuo avversario». Poi cambia il tipo di gabbia, ma non la ribellione: «Voglio essere un sedicenne normale, ma la mia vita continua a diventare sempre meno normale». E restano le insicurezze, il masochismo, le debolezze, i capitomboli. Il vuoto dietro il campione. E il Gack, la metanfetamina, presa
quando nulla funziona più. Il matrimonio nel ’97 con Brooke Shields, la crisi, lei che gli dice: «Tu non ti sei evoluto», la discesa da numero 1 a 141 del mondo, la risalita, l’incontro con Steffi Graf, il matrimonio, due figli (Jaden e Jaz), l’addio allo sport nel 2006 e finalmente la consapevolezza da uomo: «Ho giocato a tennis per un sacco di
motivi e nessuno era il mio».
Allora Andre, sorpreso dal-l’Italia?
«Per niente. Voi mi avete capito, siete recettivi. Ho sempre avuto questa sensazione, anche quando giocavo, voi sentivate che ce la mettevo tutta, che cercavo una quadratura, di mettere i pezzi insieme, anche nella vita. Ci mettevo passione, voglia, allenamento, pure nei miei sbagli. Ero disturbato, ma voi sembravate non farci caso. Davo l’idea di un bullo arrogante, ero solo pieno di ansie. C’è gente che dentro il campo rinasce, diventa leone, si sente finalmente bene, io invece stavo male da cani. Bastava un ritardo per la pioggia e già cadevo in confusione, mi venivano i dubbi, le incertezze. È stato brutto
vivere così, anzi patire. L’autobiografia l’ho voluta come me, mi sono dilaniato, sbranato, sono andato a fondo, ho scelto J.R. Moehringer, per scriverla, non perché è un premio Pulitzer, ma perché mi era piaciuto da impazzire il suo libro, “Il bar delle grandi speranze”. Ci abbiamo messo tre anni e otto versioni e ho tolto molte ore alla mia famiglia. Non è stato uno scherzo, avevo più da perdere che non da guadagnare».
McEnroe dice che lei scrive per non pagare la psicanalisi.
«Ho pagato anche quella, quando serviva. E ho letto il libro
di John da cui ho appreso molte cose sulla sua vita che non sapevo. Ma forse ha ragione lui: io volevo scavarmi, andare dentro i miei conflitti, affondare nella mia confusione. Essere molto open. Però al mondo c’è un sacco di gente che non sta bene nella sua pelle, a disagio nei matrimoni, nell’adolescenza, con se stessa. Sarò presuntuoso, ma volevo dire che si può arrivare a capirsi. Se l’ho fatto io, ci possono riuscire anche gli altri. Il libro si fonda su questa speranza: si è persi, ma ci si può ritrovare. Non è sul tennis, ma su come sia difficile confrontarsi con la propria identità. L’ho scritto: amo e riverisco tutti quelli che hanno sofferto».
In America hanno fatto scandalo i suoi sballi.
«Puro sensazionalismo. Sono contento che l’Italia abbia capito che la droga è stata un momento di sconforto, che il libro non era su quello, sul sentirsi finalmente Superman
e non dormire per due notti, ma sulla fatica che si fa a crescere. Stavo male, cercavo aiuto, non sapevo come dirlo. Non è la sola mia contraddizione: io cercavo l’autorità, e poi mi ribellavo».
A nome di tutti i ragazzi rovinati dai sogni di gloria dei genitori.
«Io mio padre sono arrivato a capirlo. È arrivato dall’Iran e a noi figli ha voluto regalare il sogno americano, lui non aveva mai po-
tuto scegliere. Avevo sette anni quando mi disse che sarei diventato numero uno. Per lui contavano forza e disciplina, non il calore umano, né la fragilità. Ora ci abbracciamo, ma prima evitava ogni contatto fisico. Solo quando
mi ha visto a pezzi, all’Us Open del 2006, allora ha odiato anche lui il tennis e ha realizzato quanto fisicamente mi avesse fatto male dare tutto».
Suo padre ha letto il libro?
«No. Dice che non ne ha bisogno,
lui c’era e non ha bisogno di qualcuno che glielo racconti. È convinto che il tennis abbia rovinato il nostro rapporto, non lui. Non mi chieda se si sente in colpa, lui pensa di non averne di colpe, anzi rifarebbe tutto quello che ha fatto, ne è fiero. Quando dopo tre sconfitte nelle finali del Grande Slam ho vinto contro Goran Ivanisevic a Wimbledon e ho chiamato casa, papà mi ha detto: come hai potuto
perdere il quarto set?».
Lei crede si possa essere felici e vincere?
«Io non ci sono riuscito. Pensavo troppo, anche se mio padre me lo proibiva. Non volevo giocare a tennis e quello sparapalline contro cui dovevo combattere, 2.500 al giorno, ha rovinato la mia infanzia. Io sono cresciuto con le ossessioni e con le frustrazioni, forse Federer sarà diverso. Ma fino a quando si sta nel fuoco non si sentono a fondo le scottature. Hai bisogno
di allontanarti dall’azione per riuscire a sentire il suo respiro. Forse tra qualche anno anche Federer e quelli che sembrano vincere con calma ed equilibrio scriveranno i loro libri e verrà fuori tutta un’altra storia. È che io sono diventato famoso in fretta, ma ci ho messo
molto a crescere».
Ci si sposa tra vittime, per questo sua moglie è Steffi Graf?
«Siamo diversi. Ok, anche lei ha avuto un padre che l’ha molto controllata e ha voluto gestire la sua vita. Ma diversamente da me lei ha sempre voluto giocare. Quando ho iniziato a dire
alla gente che odiavo il tennis loro mi rispondevano: ma dai, che in realtà lo ami. Quando l’ho detto a Steffi mi ha risposto: non lo odiamo tutti? Lei mi ha insegnato la pazienza ed è stata la mia prima lettrice, perché è una persona molto privata, e io avevo paura di mancarle di rispetto».
Vede altri Agassi in giro?
«Mettiamola così: vedo tanti giocatori che hanno paura dei giudizi, così come io temevo quello di mio padre. Vedo gente spaventata che cerca di nascondersi, e mi ricordo di quando facevo cose pazze perché per la paura volevo scomparire dalla faccia della terra. Quando Becker disse che tutti mi odiavano, mi ferì tantissimo. Già ero insicuro, quelle parole furono una lama».
Però lo sport serve.
«È uno specchio formidabile. Ma solo se non ti travesti. E mostri la tua vulnerabilità».
Emanuela Audisio
Capisco benissimo che il risvolto di un libro debba apparentarsi a una reclame, tanto da incuriosire ancor più l’acquirente già interessato
Rimasi tuttavia un pochino perplesso nel leggere, nella prima edizione di Open (Alfred Knopf 2009) l’autobiografia di Agassi, l’irresistibile affermazione “il segreto mondo del tennis, e quello esteriore della fama, non sono mai stati descritti così puntualmente”. Mi affrettai a dare un’occhiata alla mia biblioteca tennistica, seconda solo a quella di Wimbledon, ritrovandovi titoli firmati da onorevoli romanzieri quali J. McPhee, e Ring Lardner, e presi nota che l’autobiografia di Andre era stata scritta da J.R Moehringer, Premio Pulitzer e autore di
opera che aveva spinto il tennista a chiedergli collaborazione durante lo U.S. Open del 2006.
Avventuratomi nella lettura, mi era parso di ricordare, al di fuori di vicende alle quali ero stato testimone, qualche episodio di cui avevo letto in un paio di libri apparsi in precedenza, e che parevano dimenticati.
In
My Aces my Faults,
(1996 ) Nick Bollettieri, che era stato l’allenatore di Agassi dai dieci ai sedici anni, raccontava, tra l’altro, l’inizio impervio con un giovanetto “di cui non ho mai incontrato un simile, vittima di un profondo complesso Edipico, in cerca di sé fino a truccarsi pesantemente gli occhi, passarsi un rossetto sulle labbra, bucarsi i lobi delle orecchie per infilarvi anelli, e a tingersi quasi giornalmente i capelli di rosso o di arancio”.
Non sto cercando lo scandalismo ad ogni costo, tento soltanto di sottolineare che, dopo tutto,
Openmi
sembri un poco agiografico. Soprattutto dopo un altro libro che lo precede
The Agassi Story,
(2004) la biografia del padre Mike, iraniano di stirpe armena, pugile per il suo paese in due Olimpiadi, emigrato a Chicago e poi buttafuori a Las Vegas,
suocero del grandissimo Pancho Gonzales, e padre di quattro figli, tutti avviati invano al tennis ad eccezione di Andre.
Quando incontrammo, in America, assieme a Bud Collins, il 6 Settembre del ‘95 ( cfr
La Repubblica)
Mike Agassi, egli ebbe a raccontarci cose che non si trovano nella più recente biografia.
Così come è assente la storia di un Andre che, sul Centrale di Flushing Meadows, in una notte di furore, sputa verso l’arbitro e afferma poi di aver preso di mira la propria scarpetta. Un peccato, perché lo si sarebbe potuto battezzare “Sputo Boomerang”.
E, solo ora, mi viene da pensare a un altro libro, che con il tennis non ha niente a che fare, ma riguarda piuttosto le biografie:
Vite Immaginarie,
di Marcel
Schwob (Adelphi, 1972).
È quello, con tutta probabilità, il modello di Open.
Gianni Clerici