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 2012  settembre 28 Venerdì calendario

PROCESSO AL CORVO, ANCHE I CARDINALI TRA I TESTIMONI

CITTÀ DEL VATICANO — In clergyman, ma con lo zucchetto color porpora in testa. Anche i cardinali potranno essere chiamati a deporre al processo che si apre domattina al maggiordomo del Papa per la fuga di documenti riservati dalla scrivania dell’Appartamento, il cosiddetto “caso Vatileaks”. L’ipotesi è realistica, e fonti ufficiali si riservano solo di chiarire nelle prossime ore se i porporati, qualora chiamati in qualità di testimoni, potranno presentarsi direttamente in aula, o se dovranno essere interrogati nella riservatezza del loro ufficio. Uno scenario nuovo. Che si prefigura dopo la decisione presa dallo stesso Benedetto XVI di organizzare una commissione parallela di tre cardinali anziani, guidati dall’Eminenza dell’Opus Dei, il giurista Julian Herranz Casado, e capaci di indagare a ogni livello. Dunque pienamente in diritto di ascoltare i colleghi di alto grado ecclesiastico. Starà ora alle parti scegliere se agire come ha deciso di fare il Papa. Il dibattimento nella piccola aula del Tribunale di Piazza Santa Marta si apre con molte incertezze. Per la prima volta lo Stato della Città del Vaticano affronterà affrontare un processo penale a tutti gli effetti. I dibattimenti celebrati al suo interno sono stati una trentina, ma soprattutto per furti e scippi avvenuti in piazza San Pietro. Processi di non particolare rilevanza. Non ci sono dunque precedenti raffrontabili al processo a Paolo Gabriele. Tutto questo rende difficile da prevedere i dettagli del procedimento, come ha spiegato ieri in conferenza stampa l’avvocato cassazionista Giovanni Giacobbe. Né si sa quanto potrebbero durare le diverse fasi. «Ci sono processi che si esauriscono in una mattinata — ha detto Giacobbe — e altri che durano due o tre mesi». Il dibattimento sul caso Vatileaks potrebbe anche durare poco, ma solo se non verranno sollevate eccezioni o istanze dalle parti. E il fatto che il maggiordomo del Papa si sia dichiarato reo confesso
durante l’istruttoria non è nemmeno ritenuto sufficiente per la condanna immediata perché, ha affermato l’esperto, «un imputato potrebbe confessare per coprire colpe altrui, e la confessione oggi non costituisce più la prova regina». Paolo Gabriele, che ieri persone vicine alla famiglia descrivevano preoccupato per i suoi figli a causa delle ricadute mediatiche dell’evento, rischia fino a 3 anni di carcere, 4 con le aggravanti. Li trascorrerebbe in un carcere italiano: nella Santa Sede non c’è una struttura adeguata in proposito. L’altro imputato, il tecnico informatico impiegato nella Segreteria di Stato vaticana Claudio Sciarpelletti, rinviato a giudizio per favoreggiamento del furto, rischia invece fino a un anno. Ma la giurisprudenza sul Codice vaticano è in realtà oggetto di dibattito. Il giudice vaticano Paolo Papanti Pellettier nelle scorse settimane aveva espresso l’opinione che per il furto aggravato sia prevista una pena da 1 a 6 anni, allungata a 8 nel caso vengano accertate più aggravanti. Il Papa potrà
concedere la grazia in qualsiasi momento, ma vuole andare fino in fondo alla vicenda, ed è prevedibile che lo faccia, eventualmente, solo a conclusione del dibattimento.
Sono in fondo pochi, ma eclatanti, gli episodi che in passato hanno avuto al centro come protagonista la giustizia vaticana. Nel 1972 il giovane ungherese Lazlo Toth colpì a martellate la Pietà di Michelangelo: incarcerato in una prigione italiana, finì poi in manicomio. Nel 1981 il Lupo grigio turco Mehmet Ali Agca sparò due
colpi di pistola all’interno del Colonnato del Bernini ferendo Giovanni Paolo II: secondo il Trattato del Laterano, l’ordine pubblico in quel luogo spetta all’Italia e Agca fu incarcerato a Regina Coeli e poi processato in aula italiana. Nel 1998, nella sua abitazione dentro il Vaticano, il comandante delle guardie svizzere, il caporale Cedric Tornay, si suicidò dopo aver ucciso il suo comandante Alois Estermann con la moglie Gladys, ma con le tre morti venne meno la questione di un dibattimento.