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 2012  settembre 27 Giovedì calendario

IL 75% DEGLI SCAMBI DI WALL-STREET NELLE MANI DEI ROBOT

Sul multischermo del pc le quotazioni lampeggiano. Proposte d’acquisto e vendita, anche di diverse piattaforme, si scontrano nel book virtuale. L’euro, fin lì rimbalzato tra il massimo di 1,291 e il minimo di 1,289, scivola a quota 1,287. Contemporaneamente, il rendimento del BTp decennale sale oltre il 5,2%. Il software della macchina lo vede: elaborando, quasi all’istante, migliaia di dati e correlazioni, individua il sentiment negativo. E decide. L’ordine parte immediato: vendere il future sul Ftse Mib. Senza alcun intervento umano. Si dirà. Un’eccezione. Niente di più sbagliato. Il trading automatico, fenomeno più ampio dell’High frequency trading (Hft), è ormai una realtà affermata. Secondo Foresight, un think tank del Governo Britannico, la quota di ordini eseguiti da robot, nelle principali Borse statunitensi, è di circa il 75%. Quella in Europa è attorno al 50%. Insomma, sempre di più i computer dominano i listini.
Quei mercati che, da un lato soffrono, soprattutto a Wall Street, le "scorribande" degli Hft; e, dall’altro, delegano ai robot l’operatività di giornata, e non solo. A ben vedere, fors’anche per una questione di cultura, il fenomeno non ha ancora preso piede in Italia. I BelPaese, infatti, è una realtà dove i robot-trader non sono così diffusi. Nel mondo anglo-americano invece, amante di quelle black box che influenzano non poco i prezzi degli asset nostrani, il discorso cambia. Lì, per l’appunto, oltre metà degli eseguiti è definita in automatico. Fin qui i numeri e l’ampiezza del fenomeno: ma quali le sue cause? La risposta è articolata. In primis, c’è l’idea che i sistemi automatici eliminano l’emotività dell’uomo. L’intervento di quest’ultimo è sempre a monte. L’esperto studia le correlazioni; analizza la volatilità degli asset; valuta l’andamento dei prezzi e dei volumi su serie storiche (seppure, spesso, insufficienti); individua il Beta dei titoli. Dopo di che, attraverso più o meno complesse formule matematiche, sviluppa il software che individua la strategia del robot. Così, stabilendo a priori le soglie d’ingresso e d’uscita, l’emotività del trader umano sul momento è (in teoria) eliminata. Ma non è solo questione di stress. Altro elemento essenziale è la gestione dei dati. La capacità dei pc di immagazzinare ed elaborare enormi quantità di numeri, anche grazie al cloud computing, è cresciuta a livello esponenziale. Un’abilità che, a simili livelli, non è concessa ai poveri mortali. Così, a fronte dell’infinito flusso di dati e notizie che colpiscono ogni minuto i mercati, ci si affida agli algoritmi. Tutto rose e fiori, insomma? Assolutamente no. «Spesso - ricorda Eric Scott Hunsader, tra i massimi esperti mondiali di algo-trading e fondatore di Nanex - i livelli operativi di ingresso, e uscita, sono gli stessi tra i diversi investitori. L’effetto della scelta, quindi, si amplifica» all’ennesima potenza. Il che è un problema. Il settaggio della macchina, magari sensato a priori, può infatti non esserlo più. E non solo. Nonostante l’alta sofisticazione degli algoritmi, può sempre concretizzarsi una correlazione sconosciuta. Il rischio? Che la macchina, se non "controllata" in remoto dall’uomo, dia il «la» al rock and roll acrobatico, con caduta sul parterre, dei listini. In particolare quando il trading automatico è super veloce.
Già, super veloce. Gli Hft, di recente, non sono stati chiamati in causa per nuovi flash-crash. E tuttavia mini-crash, cioè crolli e rimbalzi delle quotazioni di singoli titoli in pochi attimi, accadono tutti giorni. Seppure dimenticati tra le pieghe della cronaca. Secondo la società d’analisi Nanex, negli Usa ce ne sono più di 3 al giorno. Tanto che, a fine 2012, ne potrebbero esserne catalogati oltre 800. Una normale "instabilità" che preoccupa i regulator (vedere articolo a fianco). Certo, gli Hft (è stato detto più volte) garantirebbero anche maggiore liquidità. E, tuttavia, c’è chi ricorda che il flash trading crea non pochi problemi. Attività quali il quote stuffing (cioè "sparare" migliaia di ordini in un attimo, per poi ritirarli in un secondo, influenzando l’attività degli altri operatori) hanno indotto i gestori "tradizionali" a rifugiarsi anche nelle dark pools. Non è un caso, che la quota sul totale degli scambi di queste ultime, in Europa, nel 2009 era solo lo 0,4%. Mentre, ieri, valeva ben il 4,3%. Insomma, la soluzione è peggio del problema. «Il vero tema, in realtà - dice Antonio Foglia, di Belgrave Capital -, è quello della frammentazione dei mercati», impossibile senza le tecnologie. «I regulator hanno dato per scontata l’efficienza delle Borse. In realtà, per migliorare il processo di formazione dei prezzi, è meglio concentrare le negoziazioni».