Daniela Mattalia, Panorama 26/9/2012, 26 settembre 2012
CUREREMO L’ALZHEIMER 25 ANNI PRIMA DI AMMALARCI
Laura Cuartas vive a Yarumal, in Colombia, ha 82 anni e il suo cervello funziona ancora bene. Ma l’Alzheimer ha comunque devastato la sua vita. Si è preso suo marito quando non aveva nemmeno compiuto cinquant’anni, e lei lo ha accudito fino a quando è morto. E hanno l’Alzheimer tre dei suoi quattro figli. Stanno stesi sul letto quasi tutto il giorno, non parlano, non ricordano nulla, non la riconoscono nemmeno più. La maledizione che ha colpito la famiglia di Laura era nascosta nel dna dell’uomo che ha sposato: è bastata l’alterazione di un singolo gene a innescare una forma estremamente precoce di demenza. Il gene è passato ai figli che, come il padre, si sono ammalati poco dopo i 40 anni. Il video che, sul web, racconta la storia dei Cuartas è terribile. Ma è grazie a famiglie come questa, i dannati dell’Alzheimer, che sta per giocarsi una delle partite più promettenti per sconfiggere il morbo. Sulla comunità colombiana in cui il gene contenente la mutazione è diffuso, circa 300 persone, partirà nel 2013 un trial clinico cruciale (la cui sigla è Api, Alzheimer prevention therapy): verificare se, somministrando i farmaci molti anni prima della comparsa dei sintomi, si può bloccare la malattia. Per ora interrompere o anche solo stabilizzarne il decorso non è possibile. L’Alzheimer colpisce 36 milioni di persone nel mondo, e per ognuna di loro si sa già che i farmaci esistenti serviranno a poco. Dato l’aumento dell’aspettativa di vita, si stima che i malati di demenza senile raddoppieranno per il 2050. «In confronto al cancro, ci sono meno fondi, minore comprensione dei meccanismi della malattia, meno sperimentazioni in corso e maggiore stigma sociale» scrive il Financial Times in un editoriale sull’emergenza Alzheimer. Le industrie farmaceutiche si attendono molto da sperimentazioni come quelle sulla famiglia Cuartas: se avranno buon esito, si aprirà un mercato formidabile. Testare trattamenti preventivi sulla popolazione generale, peraltro, non è possibile, per ragioni pratiche ed etiche. Pratiche perché, per una persona «normale», il rischio di sviluppare la malattia è relativamente basso e soprattutto imprevedibile; etiche perché bisognerebbe arruolare migliaia di individui ai quali somministrare, per lunghi periodi, farmaci che possono avere effetti collaterali. Sempre nel 2013, un secondo studio (Dian, acronimo di dominantly inherited Alzheimer network) coinvolgerà 240 membri di una comunità americana dove una mutazione genetica causa l’Alzheimer precoce; verificherà se dare anticorpi contro la proteina beta-amiloide (la principale indiziata dei danni al cervello) molto prima che la malattia si manifesti potrà rallentarla. «Mio nonno si è ammalato a 42 anni, mio padre a 50» ha raccontato a Science Matthew Reiswig, la cui famiglia entrerà nella sperimentazione. «E io so di avere il 50 per cento di possibilità di ammalarmi nei prossimi 10 anni». Un terzo trial (la sigla è A4) sarà invece condotto su 1.500 anziani sani, in cui le scansioni cerebrali indicano però un profilo a rischio: un aumento nel cervello della beta-amiloide. «I farmaci che oggi abbiamo a disposizione contro la beta-amiloide sono poco efficaci. Allora, delle due, l’una: o la proteina non è la causa dell’Alzheimer, oppure i farmaci funzionano poco perché intervengono quando ormai l’accumulo di beta-amiloide nel cervello ha fatto il danno» dice Fabrizio Tagliavini, direttore del dipartimento di malattie neurodegenerative all’Istituto Carlo Besta di Milano. I tre studi nuovi non avranno tempi brevi (una decina di anni). Se avranno successo, in che modo si potrà applicarne i risultati alla popolazione generale, oltre che ai portatori di geni difettosi? Anche qui, ossia nella possibilità di una diagnosi precoce dell’Alzheimer, qualcosa si sta muovendo. «Queste sperimentazioni ci aiutano a ricostruire l’evoluzione della malattia. Negli individui portatori di mutazioni genetiche si è visto, per esempio, che i segni biologici dell’Alzheimer si manifestano anche 25 anni prima dei sintomi, quando le persone sono ancora clinicamente sane» informa Tagliavini. Alcune proteine, come la beta-amiloide, si abbassano nel liquor (il liquido cefalorachidiano) prima di accumularsi nel cervello. Altre invece, come la tau, si alzano. Si tratta di marcatori che si possono vedere con tecniche di visualizzazione cerebrale, utilizzabili anche in chi ha fattori di rischio più generici: gli scienziati stanno infatti identificando una serie di geni meno incisivi come impatto, ma che comunque alzano l’eventualità di Alzheimer. «Alla fine noi medici potremmo avere a disposizione, per una popolazione più vasta, una mappa personale di marcatori biologici e di varianti genetiche che aiutano a stimare il rischio di Alzheimer molto prima che la malattia si manifesti» esemplifica Tagliavini. E in tal caso si potrà stabilire se intervenire con farmaci capaci di salvare il cervello dalla devastazione. Il forse, come sempre in medicina, non solo è obbligatorio, ma è, soprattutto in questo caso, gigantesco. La storia dell’Alzheimer è costellata di delusioni e flop: negli ultimi anni, cinque sperimentazioni cliniche sui farmaci sono finite male. «Se anche questi tentativi dovessero fallire» ammette Tagliavini «sarebbe un disastro. Ma io credo che siamo, finalmente, sulla strada giusta».