Giusi Fasano, Corriere della Sera 27/09/2012, 27 settembre 2012
ILVA, IL GIUDICE VIETA LA PRODUZIONE. GLI OPERAI: BLOCCHEREMO LA CITTA’ —
Un «no» secco alla possibilità di continuare a produrre, un’ordinanza difficile da immaginare più dura, l’annuncio di due giorni di sciopero (per cominciare), occupazioni a raffica e a sorpresa di punti-chiave dell’azienda, assemblee, presidi, incontri... Di questo è fatta la giornata più nera dell’Ilva di Taranto, cioè ieri.
La decisione del giudice delle indagini preliminari Patrizia Todisco era nell’aria da lunedì ed era chiaro a tutti che non sarebbe stato un dietrofront: l’azienda non può e non deve produrre nemmeno al minimo, ha ripetuto una volta di più il magistrato in un’ordinanza di quindici pagine nella quale non c’è nemmeno una piccola traccia della disponibilità alla trattativa in cui tanto speravano i vertici dell’acciaieria quando hanno chiesto di mantenere un’attività «finalizzata alla sostenibilità e alla realizzazione del risanamento». Richiesta «radicalmente inaccettabile» fa sapere il gip.
Niente. Nessuna concessione. Anzi: «Va detto chiaramente che l’Ilva non può porre alcuna condizione». Secondo i periti del giudice l’acciaieria inquina, è causa di malattie e morti e, scrive Patrizia Todisco, è fonte di «devastante dannosità e pericolosità», quindi c’è una sola azione possibile: «Procedere immediatamente all’adozione delle misure necessarie a eliminare le emissioni nocive».
Immediatamente. Come immediate sono state le reazioni degli operai che avevano già avviato azioni di protesta lunedì sera. Dopo una lunga assemblea hanno deciso di scioperare e bloccare la via Appia, oggi e domani, con l’appoggio di Fim e Uilm ma non della Fiom che, com’era già successo con le manifestazioni e i blocchi di luglio, si è dissociata. «Se c’è qualcuno contro cui scioperare è l’azienda» dice il segretario provinciale Fiom Donato Stefanelli uscendo dallo stabilimento dopo ore e ore di discussioni con i lavoratori per scongiurare «il rischio di una strumentalizzazione anti magistratura».
«Niente di più sbagliato» gli rispondono da cinquanta metri d’altezza una decina di addetti dell’area agglomerato. Ieri mattina alle undici hanno deciso di occupare l’«e312», il padre di tutti i camini dell’Ilva, il più alto (210 metri) e il più pericoloso. Non hanno imbragature né caschetti. Annunciano sciopero della fame e della sete e qualcuno si è incatenato alla balaustra. Giurano che non scenderanno finché qualcuno non avrà garantito il loro futuro in fabbrica e restano abbarbicati lassù a piazzar striscioni. Il più grande dice: «Pronti a tutto». E nessuno ormai ne dubita più.
Pronti a una serie estenuante di blitz per salire su questo o quell’impianto, per esempio. Com’è accaduto nel pomeriggio: prima uno dei camini delle cockerie, poi l’altoforno nr.4 (il nr. 5 era stato occupato la sera prima) e poi ancora il settore «pci» per lo stoccaggio del fossile. Occupazione a oltranza e presidi a ripetizione.
È già buio quando il presidente Bruno Ferrante commenta e per la prima volta non usa toni rassicuranti sul futuro dei lavoratori. «Noi avevamo previsto il fermo dell’altoforno 1 senza ripercussioni sui livelli occupazionali. Se ci verrà chiesto di intervenire sull’altoforno 5 lo scenario cambierà completamente. Se chiude possiamo dire addio allo stabilimento». E ancora: «Il nostro programma di interventi era serio e responsabile. È stato giudicato viceversa sconcertante. Il che mi sorprende».
A usare quella parola è il giudice nella sua ordinanza: «Mi limito a rilevare» scrive «che la richiesta di continuare l’attività produttiva al fine di affrontare gli impegni finanziari necessari per gli interventi di risanamento a cui l’Ilva non può sottrarsi, appare a dir poco sconcertante».
Durissima, Patrizia Todisco. «Non vi è spazio per proposte al ribasso circa gli interventi da svolgere e le somme da stanziare» dice nel documento depositato ieri. I 400 milioni proposti dall’Ilva come stanziamento iniziale? «Somma assolutamente e manifestamente inadeguata e insufficiente».
In un altro passaggio si legge: «I beni in gioco — vita, salute, ambiente ma anche il diritto a un lavoro dignitoso — non ammettono mercanteggiamenti». E Corrado Clini si è sentito tirato in ballo: «Il ministro dell’Ambiente non fa mercato».
Giusi Fasano