Tito Boeri, la Repubblica 27/9/2012, 27 settembre 2012
COME RIDURRE I COSTI DELLA POLITICA
LA TREGUA fra tecnici e politici è finita: l’esecutivo dei tecnici sembra intenzionato a non delegare più ai politici il compito di autoriformarsi. Non poteva fare altrimenti.
Il governo sarà costretto nelle prossime settimane a chiedere ulteriori sacrifici ai cittadini per evitare di dover sottostare alla troika. Dovrà operare consistenti tagli alla spesa pubblica attraverso la spending review, dovrà attuare ristrutturazioni importanti nel pubblico impiego passando dai disegni di legge delega (ai posteri) ai decreti, dovrà chiedere moderazione salariale nella trattativa con le parti sociali. Non poteva continuare a far finta di niente di fronte a politici e burocrazie locali che nel mezzo della crisi usano soldi pubblici per fini strettamente privati. Non c’è nessuna ragione per cui un governo tecnico non debba intervenire per tagliare i costi della politica. Al contrario, non può che essere priorità per un governo tecnico togliere autoreferenzialità a quella classe politica, dal cui fallimento scaturisce la propria ragion d’essere. È nello stesso Dna di questo esecutivo lavorare per migliorare i criteri di selezione di politici e burocrazie, rafforzando il controllo democratico e rendendo al contempo più credibili gli impegni che il nostro Paese prende in Europa e di fronte ai mercati. Coloro che vivono per la politica, anziché della politica, non possono che beneficiare dell’intervento di un governo tecnico su queste materie. Creerà le condizioni per il proprio superamento, sarà premessa indispensabile per non avere più bisogno di governi tecnici in futuro. Ora non bisognerà andare troppo per il sottile. Si deve applicare il metodo dei costi standard ai politici, che lo vorrebbero applicare ad altri, ma rigorosamente non a se stessi. I rimborsi elettorali anche a livello locale devono essere dati solo in base a giustificativi accertati da enti esterni con tetti stabiliti in base ai minori costi per voto in passate alle elezioni. Significa un risparmio del 90%. Sin qui non c’è stato poi alcun freno all’aumento dei costi dei consigli regionali. Potevano accreditarsi aumenti nei compensi e in quelli dei loro portaborse a piacimento, usando il proprio mandato come un periodo di accumulazione selvaggia, più intenso laddove era più alto il rischio di non avere altri redditi allo scadere della carica elettiva. Avviene così che dove il reddito pro capite è più basso e più alta è la disoccupazione siano più alti i compensi che i politici e le loro burocrazie si sono accordati nelle diverse Regioni (si veda lavoce.info). Non deve essere più possibile per il bilancio di un Consiglio Regionale sfuggire allo scrutinio della Corte dei Conti. E ci vogliono comunque preventivamente tetti di spesa, stabiliti in termini di numero di consiglieri regionali e compenso fisso per ognuno di questi (ad esempio 5000 euro al mese aggiustati per il costo della vita a livello locale) con cui remunerare se stessi ed eventuali assistenti. Oggi abbiamo Regioni con un consigliere ogni 3600 abitanti (Valle d’Aosta) e altre (Lombardia) con uno ogni 120.000 abitanti. Ci vuole un rapporto fisso fra eletti ed elettori e se una Regione vuole avere più consiglieri in rapporto agli abitanti dovrà necessariamente pagarli di meno. Non si dica che compensi più alti permettono una migliore selezione della classe politica.
Dal 1950 ad oggi i compensi dei parlamentari italiani sono aumentati del 1.185%; nel frattempo la percentuale di deputati con laurea è calata di quasi 25 punti percentuali.
Non si può andare per il sottile anche perché assessori e consiglieri regionali vivono lontano dai riflettori. La giunta Polverini si poteva vantare in documenti ufficiali di avere ridotto del 183% (!) i costi della pubblicità (forse che i costi sono diventati negativi?) senza che nessuno se ne accorgesse. Ancora più lontane dal controllo dei cittadini sono le Regioni a Statuto Speciale. Le spese degli organi istituzionali della sola Regione Sicilia toccano i 167 milioni, un terzo di quanto speso da tutte le Regioni a statuto ordinario per la stessa funzione, proprio mentre i cittadini siciliani devono pagare addizionali Irpef e Irap ai massimi livelli per ripianare la voragine aperta nella sanità dall’amministrazione che si concede lauti premi per il proprio operato.
Ci vorranno anche controlli molto più seri sulla qualità dei singoli amministratori locali. Perché ai candidati non viene richiesto di esibire il casellario giudiziario come avviene nel privato? Come è possibile che non siano disponibili on line le dichiarazioni dei redditi dei consiglieri regionali? Questa trasparenza va estesa anche alle altre cariche locali, a partire dai cda delle società municipalizzate, posti in genere offerti per compensare i primi non eletti in una logica che vede prevalere il servizio di collocamento del partito su qualsiasi criterio di tipo gestionale.
I costi della politica non sono infatti solo quelli del personale politico, ma sono ancora di più quelli della cattiva gestione dei soldi pubblici gestiti dalle Regioni. Com’è possibile che la legge che ha introdotto il vincolo del pareggio di bilancio nella Costituzione, abbia lasciato alle Regioni facoltà di spendere più delle entrate imponendo allo Stato di colmare la differenza? Non si possono usare due pesi e due misure: forse che la spesa statale, ad esempio per l’assistenza o la giustizia, vale di meno della spesa amministrata dalle Regioni? E poi che credibilità ha un vincolo di bilancio che non viene applicato ai livelli di governo che oggi gestiscono le componenti più dinamiche della spesa, a partire dalla sanità?
Bisognerà spingersi fino a riprendere in mano la riforma del titolo V della Costituzione. Molti politici in questi anni hanno sostenuto la causa del federalismo perché ci credevano davvero. Ma è legittimo il sospetto che non pochi di loro, soprattutto nei partiti che hanno fatto di questo tema una bandiera, abbiano agitato il federalismo come grimaldello per concedersi poteri e autoreferenzialità. Sembra che al battesimo della nuova Lega, il suo attuale reggente, Roberto Maroni, non parlerà più di Padania, ma solo di Nord. Bene perché la Padania non esiste. Ancora meglio se il rinnovato sindacato del territorio facesse una seria autocritica su come ha imposto a maggioranze che avevano bisogno dei suo voti un federalismo che oggi sottrae di fatto un’ampia fetta della gestione della cosa pubblica al controllo degli elettori.