Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 26/9/2012, 26 settembre 2012
TORINO COSTRETTA A PENSARE UNA NUOVA IDEA DI FUTURO
Torino, da dieci anni, è divisa. Ci sono i sostenitori della metamorfosi post-industriale, magari fragile e dal respiro corto ma di certo vitale e divertente, ché al massimo se dobbiamo morire un ultimo giro di tango ce lo facciamo. E ci sono gli assertori di un declino delle fabbriche percepito come triste, solitario e finale dalla sepoltura dei riti e dei miti di una città che, per un secolo, è stata la capitale della manifattura italiana, chiusa e potente.
Fiat o non Fiat, il Novecento è passato. E non tornerà più. Lo dicono le statistiche sulla de-manifatturizzazione. Secondo una stima dell’ufficio studi dell’Unione industriale di Torino, la Fiat e l’indotto pesano per il 25% sul valore aggiunto industriale; l’industria vale il 30% del Pil; dunque, oggi, è stimabile nel 7,5% il contributo che la Fiat e l’indotto danno al Pil torinese. Nel 2002, due anni prima che arrivasse Sergio Marchionne, il sistema Fiat influiva per il 30% su un valore aggiunto industriale che, a sua volta, era pari al 35% del Pil; l’auto in generale contribuiva al Pil per il 10,5 per cento. Vent’anni fa le cose stavano ancora in maniera diversa: Fiat e l’indotto determinavano il 35% dell’industria, che rappresentava il 38% del Pil; ecco che l’auto incideva per il 13,3% su quest’ultimo. «Si tratta di un fenomeno strutturale – sottolinea Mauro Zangola, responsabile dell’ufficio studi dell’Unione industriale –, anche se la manifattura resta centrale. Nel senso che, per Torino, vale la regola italiana: la crescita è trascinata dall’export. Ma, di certo, la monocultura industriale, se non la monocultura Fiat, non c’è più». Questo vale anche per l’indotto auto, «in cui – ricorda l’economista Giampaolo Vitali – i componentisti lavorano per tutti i produttori».
Negli ultimi vent’anni le élite raccolte intorno alla famiglia Agnelli e intorno alla cultura politica liberale e post-comunista organizzata da Enrico Salza hanno costruito una way-out meno dolorosa possibile rispetto a un codice genetico storico che sembrava duro e tagliente come un pezzo di lamiera. Le Olimpiadi, con la pinacoteca del Lingotto, hanno rappresentato l’ultimo lascito di Gianni Agnelli. Hanno catalizzato ingenti risorse finanziarie pubbliche. Cosa che oggi, con la crisi dei debiti sovrani, risulterebbe impossibile. Hanno fatto lievitare il debito consolidato del Comune. Ma hanno consentito ai torinesi di coltivare una nuova idea di futuro. Nella narrazione sulla città costruita dalle élite, si sono valorizzati i musei e le architetture di una vera capitale, la mente e lo spirito saziato, mentre al corpo pensavano i ristoranti del Quadrilatero Romano e le pasticcerie di Piazza Castello. «Il fattore culturale – riflette Cesare Annibaldi, classe 1935 – è coerente con la nostra storia». Il pensiero azionista, il circuito einaudiano e quello comunista dell’Unione culturale. L’arte povera. Più i musei e le gallerie. Un humus fertile trasformatosi in una offerta coerente. Annibaldi, negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, è stato un uomo di raccordo fra vecchio e nuovo: fino al 2003 dirigente di prima linea del gruppo Fiat e, poi, animatore del museo d’arte contemporanea di Rivoli. Non (più) solo motori e portelloni. Ma (anche) cultura e cibo. «In generale in Italia – ragiona il trentottenne Guido Martinetti, 54 gelaterie Grom in tutto il mondo – il costo del lavoro rende complicata la concentrazione sul manifatturiero. Il food e il turismo sono il futuro, nostro e del Paese».
La recessione mina però questi equilibri instabili. Per le politiche culturali servono tanti soldi pubblici. E ce ne sono sempre meno. Inoltre, qui si sperimenta una scarsa circolarità delle élite. «Torino oggi non è una città chiusa – riflette Annibaldi sulla latitanza dei giovani –: il buon senso mi dice che dovrebbero essere gli anziani a fare entrare nel gioco i giovani. Ma mi è anche difficile capire perché i giovani non si organizzino. In fondo, sono loro a dovere prendere in mano la questione della nostra identità». Il rischio, adesso, è di interrompere la mutazione.