Ugo Bertone, Libero 25/9/2012, 25 settembre 2012
SERGIO FA L’AMERICANO PER SALVARSI IN EUROPA
Le polemiche, almeno in Piazza Affari, non fanno male a Fiat. Ieri, in una giornata difficile per i listini, il Lingotto ha guadagnato il 2,45%. Merito della conferma, da parte di Sergio Marchionne, dei target 2012, segno che «l’azienda non è malata, è sana e in ottima forma»come ha detto l’ad, fresco di sbarbatura, all’assemblea dell’Unione Industriali di Torino.
I numeri, insomma, confermano che strada è quella giusta: le risorse vanno destinate innanzitutto a guadagnar posizioni in Chrysler, per assicurarsi il controllo della cassa di Detroit, il trampolino che tornerà utile fra un paio d’anni, quando ripartirà il mercato europeo. Ma anche il salvagente cui aggrapparsi per far lavorare le fabbriche italiane durante la traversata nel deserto dell’austerità. Merito, però, forse ancor di più della grinta con cui il manager che gli americani apprezzano ma in Italia viene giudicato «scarso», ha reagito all’assedio cui è sottoposto il Lingotto: è probabile che gli investitori internazionali apprezzino la capacità di cercare soluzioni a una crisi difficile basandosi sulle proprie forze, senza piegarsi ai diktat mediatici che dipingono la Fiat in fuga dall’Italia ma, al tempo stesso, rimproverano il Lingotto di non vendere pezzi alla Volkswagen.
Di sicuro, Marchionne ieri ha compiuto un altro strappo nei confronti dell’establishment di casa nostra, coi suoi rituali e le sue regole non scritte, fatte di accordi sottobanco, scambi di favori, soprattutto in sede preelettorale, in cui si cerca di distribuire qualcosa a tutte le parti sociali in un banchetto dove non è mai invitato il profitto. «La nostra non è competizione politica - ha tuonato non siamo a caccia di voti, non organizziamo né partecipiamo a raduni elettorali o feste in maschera, non siamo un movimento populista con baci, abbracci, foto di gruppo da Vasto. Non abbiamonessunacoalizione diminoranzaa garantirci la poltrona. Ma soprattutto non esprimiamo opinioni su argomenti che non conosciamo e che non sono di nostra competenza».
Ce n’è per tutti: chi si lamenta della mancanza di nuovi modelli (e chi li compra in tempi di Imu?) o dei ritardi in ricerca ed innovazione. Ma soprattutto, per chi invoca l’arrivo di Volkswagen: «Ben venga farò per facilitare il suo ingresso in Italia. Ma l’AlfaRomeo nonè in vendita». Poteva fermarsi qui, ma la rabbia è troppa dopo mesi di sgarbi a distanza. «A quelli tra voi che sono sul libro paga di Wolfsburg, chiedo di ribadire ai vostri proprietari tedeschi un concetto semplice e chiaro: l’Alfa Romeo non è in vendita». Al contrario, ci sarebbe spazio, negli stabilimenti italiani da condividere con qualche produttore straniero, magari cinese o giapponese, come avviene in Inghilterra.
«Ho cercato per 8 anni un partner straniero per Fiat, non ci sono riuscito. Su questo ammetto d’aver fallitosi sfoga - non c’è nessuno che voglia accollarsi anche una sola delle zavorre italiane. Vorrei essere chiaro: non sono i lavoratori o la nostra gente il problema. Il sistema lo è».
Che dire? Per i suoi critici, a partire da Diego della Valle, le parole di Marchionne suoneranno la conferma che «la famiglia Agnelli ha deciso d’abbandonare questo Paese» e che Marchionne altri non è che l’esecutore di questo intento liquidatorio. Ma al di là dei toni da Bar Sport della disputa (chissà che clima stasera per Fiorentina- Juventus già calda di suo...), risulta difficile contestare nel merito le parole dell’ad di Fiat e recriminare, allo stesso tempo, sui ritardi di produttività del Paese. Quasi che bastasse un convegno o la firma di un accordo per recuperare ritardi che affondano le radici negli anni.
Certo, invece che rispondere nel merito è più facile inventarsi un bersaglio comodo, accusandolo di «non fare profitti in Italia, anzi in Europa». Quasi che gli altri ne facessero: a partire da Renault e Peugeot, in grave difficoltà proprio per aver fatto «i nuovi modelli», a Gm e Ford, che insistono sul mercato europeo perché dispongono del polmone di Detroit, lo stesso che Marchionne sta conquistando con un’operazione che negli Usa i guru dell’auto considerano magistrale ma che, per i soloni nostrani, è solo «frutto dei soldi di Obama».
O la stessa Volkswagen che, di fronte alla frenata del mercato Ue e il probabile stop della Cina, ha probabilmente altro a cui pensare che alle beghe nostrane. Anche se Marchionne (e qui probabilmente sbaglia) è convinto non sia così: in mezzo a tante pressioni anche un ottimo manager rischia di vedere i fantasmi.