Lila Azam Zanganeh, la Repubblica 26/9/2012, 26 settembre 2012
QUANDO NASCE UN EDITORE
Da bambino voleva diventare uno scrittore?
«Ho cominciato a scrivere le mie memorie, o qualcosa del genere, quando avevo dodici anni. Ho ancora in mente la prima riga: “L’estate la sentivo arrivare dal viale”. Era il suono del tram che cambiava con l’arrivo dell’estate. A quel tempo abitavamo in una casa che dava su un grande viale. Oggi è una strada di scorrimento, ma prima c’erano dei meravigliosi tigli, e il tram ci passava in mezzo. Era il 19. Di notte lo sentivo avvicinarsi. Il libro avrebbe dovuto raccontare i miei ricordi fra i quattro e i sette anni».
Lei è nato a Firenze.
«Sì, nel 1941, nel pieno della guerra. Forse l’anno più disperato nella storia d’Europa. Con i nazisti a Parigi che ancora pensavano di vincere».
Cosa faceva suo padre durante la guerra?
«Mio padre era professore di Storia del diritto italiano all’Università di Firenze ed era un noto antifascista. Nel ’44 Giovanni Gentile venne assassinato. Gentile era un importante filosofo, ma sfortunatamente molto coinvolto nel fascismo. Fu ucciso da due partigiani davanti a una villa sulle colline di Firenze. E subito dopo, per rappresaglia, vennero arrestati e condannati a morte tre professori antifascisti. Uno di questi era mio padre. Firenze era nelle mani di uno dei più feroci capi della milizia fascista, Carità. Ma si dà il caso che la mia famiglia – specialmente quella di mia madre – fosse legata ai Gentile. Erano molto amici – e fu così che due figli di Gentile andarono immediatamente dalla polizia perché venisse sospesa la condanna a morte. Fu un atto di grande generosità».
E funzionò?
«I fascisti avvertirono che, se i partigiani avessero compiuto un’altra azione, i tre prigionieri sarebbero stati fucilati. Rimasero in carcere per tre settimane, pensando ogni notte che avrebbero potuto essere uccisi il giorno dopo. Alla fine furono liberati grazie al console tedesco, Gerhard Wolf, un uomo straordinario che conosceva bene uno dei due compagni di prigionia di mio padre, Bianchi
Bandinelli, illustre studioso di arte classica. Wolf si ricordò che quando Hitler era venuto a Firenze nel ’38 aveva visitato gli Uffizi. E la persona scelta per accompagnarlo era stata Bianchi Bandinelli. Hitler era rimasto entusiasta della sua guida e si ricordava ancora di lui. Così Wolf avvisò Berlino che Bianchi Bandinelli stava per essere fucilato. Questo fu decisivo. I fascisti rilasciarono tutti e tre i prigionieri. A quel punto naturalmente mio padre dovette scomparire – e anche noi. Il rischio era di essere presi come ostaggi. Per un certo periodo vivemmo nascosti nella soffitta dell’appartamento di una donna molto coraggiosa che abitava in via Cavour, proprio nel centro di Firenze. I miei primi, confusi ricordi risalgono a quel tempo. Dormivo su un materasso per terra. Si sentivano spari nella strada e tentavo di arrampicarmi fino alla finestra. Ma i primi ricordi netti sono quelli della villa di San Domenico, vicino a Firenze, dove andammo a stare verso la fine la guerra. Ricordo la limonaia e il glicine su un balcone che cadeva a pezzi».
Dopo la guerra siete tornati a Firenze?
«Sì, siamo rimasti a Firenze fino
al 1954. Poi ci siamo trasferiti a Roma, perché mio padre era stato chiamato a insegnare in quell’università. Quanto a mia madre, aveva scritto la tesi di laurea su uno dei
Moralia
di Plutarco e poi aveva lavorato sulle traduzioni da Pindaro di Hölderlin. Era molto brillante, ma poi preferì dedicarsi ai suoi tre figli».
Come stabilì un rapporto con i libri della sua casa?
«La nostra casa era tutta foderata di libri. In buona parte testi di teoria del diritto, per lo più opere
pubblicate fra il Cinquecento e il Settecento: le fonti su cui lavorava abitualmente mio padre. Molti erano imponenti volumi in folio, prevalentemente in latino. Il solo fatto di averli intorno, con i loro titoli oscuri e i remoti nomi dei loro autori, è stato per me di gran lunga più utile di tante letture fatte in seguito. Nei fine settimana spesso andavo a casa di mio nonno, Ernesto
Codignola, che era professore di filosofia all’Università di Firenze e anche il fondatore della casa editrice La Nuova Italia. Nel suo catalogo si possono ancora trovare molte opere di Hegel e alcuni dei maggiori filologi classici».
Le piaceva vivere a Roma?
«Amavo Roma. A quel tempo avevo una specie di mania per il cinema – ci andavo una o anche due volte al giorno, invece di studiare. Adoravo trovarmi nell’oscurità di quelle grandi sale del centro piene di fumo. E avevo una vera passione per Marlon Brando. Era un grande attore, ma anche una sorta di mutante – quando apparve per la prima volta sullo schermo fu come trovarsi davanti l’esemplare di una nuova specie. E ovviamente amavo anche i suoi film. Li conoscevo a memoria. Può sembrare comico oggi, ma credo di aver visto
Fronte del portoalmeno
sette volte. Tutti i generi di Hollywood mi affascinavano. In quel periodo ho anche scritto una sceneggiatura da
Lord Jim,
libro che mi appassionava».
Quali sono i suoi ricordi del liceo?
«Avevo una formidabile professoressa di greco e latino, Maria Di Porto. Una donna di un’intelligenza, una vivacità e una rapidità
impressionanti».
Già allora si interessava alla Grecia antica?
«Come a molte altre cose. Quando avevo dodici anni ho incontrato quello che sarebbe diventato il mio più grande amico, Enzo Turolla. Purtroppo ora è morto. Era il più straordinario lettore che abbia mai conosciuto – il suo giudizio sui libri era perfetto.
La Folie Baudelaire
è dedicato a lui. Ci siamo conosciuti su un campo di calcio, in un paese delle Dolomiti dove andavamo in vacanza. Aveva dieci anni più di me, ma ci intendemmo subito. Tutto cominciò quando un giorno mi sentì dire che il saggio di Croce su Baudelaire non era un gran che. Allora ci mettemmo a parlare – e non abbiamo mai smesso».
Era un accademico?
«Un po’ come uno di quei professori di Oxford che pubblicano una mezza dozzina di articoli in tutta la loro vita. Per anni insegnò all’Università di Padova. La sua famiglia aveva una casa molto bella a Venezia e io passavo spesso lunghi periodi da loro. Andavamo in giro per ore chiacchierando fino alle quattro del mattino. Quando l’ho conosciuto, era completamente immerso in Proust».
Una passione che ha trasmesso
anche a lei.
«Sì, la
Recherche
era appena stata pubblicata in tre volumi nella Pléiade, e io chiesi di averla come regalo di Natale. Proust divenne subito un grande amore ed è tuttora uno degli scrittori a cui torno più spesso».
Qual è stato l’argomento della sua tesi di laurea?
«La teoria dei geroglifici in Sir Thomas Browne. Il meglio della prosa inglese del Seicento. Borges lo venerava – era uno dei suoi autori preferiti. E anche uno degli autori preferiti del mio relatore, Mario Praz».
Tanto per cominciare, cosa l’attraeva di Browne?
«Tutto. Era un superbo scrittore.
Una specie di versione ridotta, anglica ed esoterica, di Montaigne. I geroglifici – ovvero l’idea di
un linguaggio fatto di immagini – sono una presenza costante in tutti i miei libri. Fu l’inizio di molte cose per me. E fu anche un ottimo pretesto per stare a Londra. Passavo le mattine alla British Library e il pomeriggio al Warburg
Institute, o viceversa. Una vita ideale. Erano gli anni ’60, gli inizi dei Beatles e di molto altro. Naturalmente cercai di rinviare il più possibile la data della discussione e alla fine scrissi la tesi in meno di un mese, fumando hashish tutte le notti. A quel tempo avevo degli amici americani a Roma, esperti in ogni genere di droghe. Abbastanza curioso, a pensarci adesso ».
Lavorava già all’Adelphi?
«Sì. I primi libri pubblicati da Adelphi uscirono alla fine del ’63. Roberto Bazlen, colui che per primo impostò il programma della casa editrice, abitava anche lui a Roma, e ci vedevamo spesso».
Quindi ha fatto parte dell’Adelphi fin dall’inizio?
«Dal giorno del mio ventunesimo compleanno, nel 1962. Bazlen mi disse che stava per nascere una nuova casa editrice, dove avremmo potuto pubblicare i libri che veramente ci piacevano. Il nome Adelphi non era ancora stato deciso. I libri che si trovano nel mio studio in casa editrice sono ciò che resta della preziosa biblioteca di Bazlen. La biblioteca di un uomo che comprava i libri di Kafka e di Joyce nel momento in cui uscivano, per il semplice fatto che erano gli scrittori del momento. Fu lui a scoprire Svevo e a ordinare al suo amico Montale di leggere quello scrittore totalmente ignoto».
Quando era giovane, Bazlen fu dunque la sua guida nel mondo della letteratura?
«Bazlen era un grande maestro taoista. Senza insegnarmi nulla, mi ha fatto imparare da lui più che da chiunque altro. Era piuttosto contrario allo scrivere, non pensava fosse obbligatorio. Pensava che una persona dovesse cercare di
essere
in qualche modo, senza per forza doverne scrivere. C’è una osservazione bellissima che si trova nei suoi scritti postumi: «Un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi». Bazlen è morto nel ’65 e in quell’anno l’Adelphi attraversò la sua prima grande crisi finanziaria. Ma riuscimmo a sopravvivere. Nel 1968 capii che dovevo venire a Milano e nel ’71 divenni ufficialmente il direttore editoriale della casa editrice. Da quel giorno ho sempre fatto le stesse cose: leggere, scegliere e preparare libri».