Sandro Cappelletto, Corriere della Sera 26/9/2012, 26 settembre 2012
Manhattan, dalla 74° strada basta una passeggiata di pochi minuti per arrivare al Metropolitan. Casa e bottega: Michele Mariotti, 33 anni, da tre settimane abita qui
Manhattan, dalla 74° strada basta una passeggiata di pochi minuti per arrivare al Metropolitan. Casa e bottega: Michele Mariotti, 33 anni, da tre settimane abita qui. Ha preferito marcare stretto il gran teatro dove venerdì debutterà dirigendo Carmen di Georges Bizet. Regia, vivacissima, di Richard Eyre, protagonista Anita Rachvelishvili: «sensational», la definisce la stampa americana. Maestro, come si sono accorti di lei i responsabili del Met? «A Bologna, venendo ad ascoltare una mia recita, tre anni fa». Che cosa possiamo imparare dai teatri americani? «L’organizzazione. Qui ci sono, nello stesso tempo, semplicità e rigore. Tutto è chiaro, preciso, senza che nessuno si senta ingabbiato dalle regole. E’ forte l’orgoglio di essere parte di un gruppo ed è questo orgoglio che fa grande il teatro». Lo dice pensando agli italiani campioni di individualismo? «Dico che qui nessuno si sente declassato per quello che fa. C’è un sentimento diffuso di rispetto e perfino di calma, che sento anche in città. Assieme a una spontaneità, una naturalezza delle persone che mi piace molto». Negli Usa la politica entra a teatro? «Solo la politica artistica. Conta il risultato, cioé il successo, tenendo conto del giudizio del pubblico e anche della critica. Critici che non vengono in sala avendo in testa l’immagine dell’artista perfetto - che non esiste - per evidenziare i difetti di quelli che si trovano davanti». «Il direttore è l’unico musicista che fa musica senza uno strumento»: è un pensiero di Carlo Maria Giulini, quando rifletteva sul mistero di questo mestiere. La sua opinione? «Misterioso, certo: stessa orchestra, stesso teatro, stesso programma, però quando cambia il direttore è il risultato finale a cambiare. La tecnica, il carisma, tutto entra in gioco, anche il fisico: se sei alto o basso, come muovi le braccia e le gambe, in una parola il modo in cui riesci a trasmettere quello che hai in testa. Oppure no». Lei intende restituire una Carmen intima. Dov’è l’intimità in un’opera che si svolge in piazza, nei locali pubblici, durante una corrida? «Nella musica: c’è tanto Mozart in Bizet. Mi affascina la trasparenza di quest’opera, la delicatezza di numerosi passaggi, che non vanno a scapito del fuoco del dramma. E’ un’opera che va sempre cantata, mai urlata. Nessuno è volgare. Pensiamo a Escamillo, il torero: il suo fascino non è quello del muscolo, del macho, del bagnino da spiaggia. Ha la calma del forte». Da New York a Bologna. Come sta il teatro di cui è direttore principale, fino al 2014? «Veniamo da un anno bello, il peggio è passato, il teatro ora è più solido. Non è una consolazione, ma in Italia ci sono istituzioni musicali che stanno peggio della nostra». Dopo il Metropolitan, quale il desiderio musicale più forte? «Mantenere la qualità. Sono cresciuto con la convinzione che la qualità vince sempre. Per un direttore questo significa affrontare i titoli per i quali ti senti pronto. Il peggior nemico è l’ansia. Non oso neppure pensare, per ora, a dirigere Otello oFalstaff : c’è bisogno di maturità, anche di vita, di esperienze, di ponti sotto i quali passare». Però, la prossima estate a Pesaro, dirigerà Guglielmo Tell , l’addio al teatro di Gioachino Rossini, opera molto matura, da tutti i punti di vista. «E’ diverso: nei confronti di Rossini c’è stato un percorso di avvicinamento, che ora mi consente di affrontare il suo ultimo capolavoro». Quanta attenzione intende dedicare al repertorio contemporaneo?